Cosa c’è negli alimenti che consumiamo? Sofisticazioni e adulterazioni, fast food e take away, intolleranze e allergie, anoressia e obesità. Il modello di Dieta Mediterranea è stato messo a dura prova dalle trasformazioni, industriali e sociali, avvenute negli ultimi cinquant’anni in Italia, che hanno determinato radicali cambiamenti nelle abitudini al consumo alimentare.

lunedì 27 novembre 2017

Prodotti dolciari: cosa nasconde la lista degli ingredienti?


I prodotti dolciari confezionati, in particolar modo le merendine, sono così tanto demonizzati ma allo stesso tempo così amati e consumati. Il motivo è fondamentalmente lo stesso: gli ingredienti lasciano spesso perplessi ma sono proprio quelli a rendere tali prodotti soffici, gustosi, appetibili ed apprezzati. Basta leggere l’etichetta per venire a conoscenza dell’elenco degli ingredienti, riportati obbligatoriamente per legge secondo il Regolamento CE 1169/2011. Alcuni di questi ingredienti accomunano molti prodotti dolciari, sono abbastanza frequenti ed è facile leggerli in svariate etichette.  Per prima cosa, bisogna far attenzione alla componente grassa dei prodotti dolciari, soprattutto se di origine animale, avente una funzione particolare sulla salute umana. Per chiarezza, distinguiamo gli acidi grassi in: saturi, dotati di una consistenza solida e abbondanti soprattutto nel mondo animale, e insaturi che sono invece liquidi e abbondano nel mondo vegetale. Questi ultimi si suddividono ulteriormente in cis e trans, in base alle caratteristiche molecolari. I grassi saturi sono potenzialmente dannosi per la salute; allo stesso modo gli acidi grassi trans: un consumo eccessivo aumenta la probabilità di contrarre gravi patologie cardiovascolari. Un ingrediente spesso utilizzato nella preparazione di prodotti dolciari è la margarina, avente un contenuto elevato sia di acidi grassi saturi che di acidi grassi trans. Essa, infatti, è ottenuta utilizzando o grassi vegetali saturi naturalmente, come l'olio di cocco e di palma, oppure oli vegetali insaturi, che vengono però idrogenati così da renderli saturi o trans. Il processo di idrogenazione, una tecnica largamente impiegata per la produzione di margarina, permette di ottenere una consistenza migliore del prodotto e tempi di conservazione più lunghi. I vantaggi produttivi, tuttavia, sono a scapito del consumatore, poiché le elevate temperature e pressioni a cui sono sottoposti gli alimenti vanno ad alterare chimicamente gli acidi grassi. Si ottiene così un alimento decisamente dannoso per la salute di chi ne fa uso. L’organismo, infatti, utilizza gli acidi grassi trans della margarina come costituenti delle membrane cellulari; il risultato è una cellula indebolita e più suscettibile ad infezioni e all’attacco di batteri e virus. Inoltre, gli stessi grassi saturi sono responsabili dell’aumento del colesterolo cattivo e della contemporanea riduzione del colesterolo buono; in questo modo cresce il rischio di aterosclerosi e danni cardiovascolari. Secondo la normativa vigente, in particolare secondo il Regolamento CE 1169/2011, la quantità di acidi grassi saturi deve essere riportata obbligatoriamente nella dichiarazione nutrizionale di un alimento, mentre è facoltativo riportare la quantità di acidi grassi monoinsaturi e polinsaturi. Inoltre, riguardo all’elenco degli ingredienti, lo stesso regolamento impone che: gli oli e i grassi raffinati di origine vegetale possono essere raggruppati nell’elenco degli ingredienti sotto la designazione «oli/grassi vegetali», immediatamente seguita da un elenco di indicazioni dell’origine vegetale specifica e, eventualmente, anche dalla dicitura «in proporzione variabile»; l’espressione «totalmente o parzialmente idrogenato», a seconda dei casi, deve accompagnare l’indicazione di un olio/grasso idrogenato; gli oli e i grassi raffinati di origine animale sono designati come «olio/grasso o materia grassa» accompagnato dall’aggettivo «animale», oppure dall’indicazione dell’origine animale specifica; anche in questo caso, l’espressione «totalmente o parzialmente idrogenato», a seconda dei casi, deve accompagnare l’indicazione di un olio/grasso idrogenato. I prodotti dolciari, spesso, oltre ad essere ricchi in grassi, presentano un contenuto eccessivo di zuccheri. Questi determinano un intenso sapore dolce che ha la duplice funzione di rendere appetibile e gradevole un impasto privo di gusto e di mascherare l’utilizzo di ingredienti scadenti, ingannando il palato del consumatore. La maggior parte dei prodotti dolciari in commercio contiene zucchero bianco: estratto dalla barbabietola e sottoposto ad un intenso processo produttivo, esso arriva sulle nostre tavole come un alimento ipercalorico e privo di elementi nutritivi; vitamine, minerali ed enzimi vengono infatti completamente persi durante le varie fasi della produzione. Inoltre, svariati studi scientifici hanno rivelato che lo zucchero bianco è legato all’insorgenza di problematiche quali diabete, obesità e malattie cardiovascolari, già dalla prima infanzia. Ma lo zucchero bianco non è il solo a cui vengono imputati questi effetti. Gran parte dei consumatori, infatti, opta per prodotti dolciari a base di zucchero di canna grezzo, con l’illusione che non sia dannoso per la salute. In realtà, tra zucchero di canna grezzo e zucchero bianco non c’è alcuna differenza, in termini di valori nutrizionali.  
Per quanto riguarda, invece, i prodotti dolciari a base di frutta, è bene non lasciarsi ingannare da un contenuto vitaminico, in realtà, inesistente. Le elevate temperature a cui gli alimenti sono sottoposti causano una vera e propria denaturazione delle vitamine, instabili al calore. Quindi, essendo i prodotti dolciari quasi del tutto privi di fibre, minerali e vitamine, si configurano come alimenti ipercalorici e privi di nutrienti.  
Oltre a questo, va considerato che i prodotti dolciari contengono anche una buona dose di additivi alimentari. Gli additivi alimentari sono regolamentati a livello comunitario dal Regolamento CE 1333/2008, il quale definisce che per «additivo alimentare» s’intende «qualsiasi sostanza abitualmente non consumata come alimento in sé e non utilizzata come ingrediente caratteristico di alimenti, con o senza valore nutritivo, la cui aggiunta intenzionale ad alimenti per uno scopo tecnologico nella fabbricazione, nella trasformazione, nella preparazione, nel trattamento, nell’imballaggio, nel trasporto o nel magazzinaggio degli stessi, abbia o possa presumibilmente avere per effetto che la sostanza o i suoi sottoprodotti diventino, direttamente o indirettamente, componenti di tali alimenti». È corretto informare i consumatori, al fine della loro tutela, che gli additivi alimentari sono sostanze costantemente monitorate e studiate dall’EFSA, autorità europea per la sicurezza alimentare, la quale autorizza l’uso di un additivo solo se sono disponibili studi scientifici che garantiscono la sicurezza del consumatore e se tale additivo è considerato assolutamente necessario ai fini tecnologici. Per questo, il Regolamento CE 1331/2008 istituisce una procedura uniforme di autorizzazione per gli additivi, gli enzimi e gli aromi alimentari. Dunque solo gli additivi autorizzati possono essere utilizzati nella preparazione degli alimenti e questi, a tutela del consumatore, devono essere identificati in etichetta con il nome della loro categoria funzionale, seguita dal loro nome specifico o dal numero CE, un codice europeo, costituito dalla lettera E e da un numero progressivo. Gli additivi alimentari autorizzati figurano negli allegati II e III del Regolamento CE 1333/2008.  
In particolare, bisogna fare attenzione alla presenza di alcuni additivi presenti nei prodotti dolciari che, se assunti in quantità eccessive, possono rivelarsi dannosi per l’organismo. Il colorante E127, ad esempio, può provocare disturbi a carico della tiroide, a causa della presenza di iodio; l’E129, E132 ed E133 causano iperattività nei bambini, mentre E140, 141 e 142 possono risultare addirittura tossici. Altri additivi pericolosi sono l’E320, che può ridurre la vitamina D, l’E450 che sottrae calcio all’organismo e l’E905, che può causare malassorbimento di grassi e vitamine.
Per questo, per alcuni additivi, è fissata una dose accettabile giornaliera, cioè la quantità di additivo che può essere ingerita giornalmente, senza effetti sulla salute. Questo fa ben capire come il problema sia legato soprattutto alla quantità più che alla presenza della sostanza stessa, poiché, come per ogni cosa, “è la dose che fa il veleno”.


Serena De Palma
Master in “Sicurezza, certificazione e comunicazione alimentare” 8°ed

Laura Benedetta Sasso
Master in “Alimentazione e nutrizione umana” 19° ed


Un lievito per ogni ricetta


Quotidianamente, per la preparazione di impasti lievitati, come pane, pizze, focacce ma anche prodotti dolciari, si ricorre all’uso di agenti lievitanti. Come è noto, al momento dell’acquisto, sugli scaffali ci si imbatte in tipologie di lieviti molto diverse fra loro e per questo destinate ad utilizzi differenti. Spesso si sa bene che tipo di agente lievitante acquistare per uno specifico utilizzo; ma questa scelta non sempre è consapevole. Che differenze ci sono tra un panetto di lievito e una bustina di agente lievitante in polvere? Cosa contiene ciascuno di questi prodotti?
 Innanzitutto, esiste una netta distinzione tra lievito biologico e lievito chimico. La finalità è, in entrambi i casi, quella di consentire all’impasto un aumento di volume: questo avviene grazie alla liberazione di anidride carbonica che viene intrappolata nelle maglie create dal glutine. Il glutine è una proteina presente nel grano che, durante l'impastamento della farina con l'acqua, assume nello spazio una forma particolare, una rete che trattiene l’anidride carbonica e permette all’impasto di sollevarsi, quindi di lievitare. La differenza tra le due tipologie di lievito è data proprio dalla modalità con cui l’anidride carbonica viene prodotta.  Il lievito biologico è costituito da miliardi di cellule vive del lievito Saccharomyces cerevisiae, è anche noto come “lievito di birra” perché utilizzato fin dall’antichità per la produzione della birra, oltre che per la produzione del vino e per la panificazione. Si tratta di un organismo unicellulare appartenente al regno dei funghi che fermenta gli zuccheri presenti nell’impasto rilasciando anidride carbonica e alcol etilico; quest’ultimo evapora nella fase di cottura. Il lievito biologico è disponibile in più forme: panetti, scaglie, capsule o compresse. Per la sua produzione si utilizzano grandi contenitori, noti come biofermentatori, dove i microrganismi sono mantenuti in vita e fatti riprodurre, monitorando parametri fondamentali per una crescita ottimale, tra questi la fonte energetica (generalmente melassa di barbabietola), la temperatura, la quantità di ossigeno e altri fattori. Successivamente si recupera la biomassa ottenuta e si compatta ottenendo i comuni panetti disponibili in commercio. I panetti così ottenuti non sono altro che cellule vive di lievito che operano una fermentazione biologica rilasciando CO₂ responsabile della lievitazione; hanno pertanto una breve data di scadenza e vanno conservati in frigorifero a temperature tra 0 e 10 ⁰C.  Dal punto di vista nutrizionale il lievito di birra è composto da circa il 45-60% di proteine con una buona quantità di amminoacidi essenziali (leucina, valina, isoleucina, fenilalanina…), 30% di fibre, 9% di carboidrati, 4-7% di lipidi e 6-9% di minerali. Fibre e carboidrati sono principalmente rappresentati da polisaccaridi, in particolare β-glucani che hanno un’interessante azione stimolante sul sistema immunitario. Il lievito di birra è inoltre molto ricco di vitamine del gruppo B (B1, B2, B3, B5, B6 e folati) alle quali si aggiungono oligoelementi come selenio e cromo; per tali ragioni trova largo impiego anche nell’ambito dell’integrazione alimentare ed è dunque commercializzato sottoforma di capsule e compresse. 
Il lievito fresco può anche essere liofilizzato ed essere venduto come lievito secco. Al momento dell’uso va rinvigorito, stemperandolo in acqua tiepida, meglio se zuccherata. In quanto tale, si conserva più a lungo e a temperatura ambiente. Appartiene ai lieviti biologici anche il lievito naturale detto lievito madre o pasta acida. Questo si ottiene creando un impasto di farina e acqua che viene contaminato spontaneamente da microrganismi presenti nella farina, nell’acqua e nell’ambiente e viene periodicamente rinfrescato aggiungendo altra farina e acqua in modo da tenere in vita i microrganismi che ospita.  
 
Saccharomyces cerevisiae
La microflora autoctona che colonizza l’impasto non è costituita esclusivamente da Saccharomyces cerevisiae; a differenza del lievito di birra, nella pasta acida, infatti, convivono varie specie di lievito e batteri lattici del genere Lactobacillus. Per tale motivo si verifica una fermentazione alcolica operata dai lieviti e una fermentazione lattica operata dai batteri lattici che, metabolizzando gli zuccheri, producono prevalentemente acido lattico. La variazione del pH che avviene all’interno dell’impasto durante la lievitazione permette ai minerali custoditi nella farina di essere liberati divenendo così più facilmente assorbibili dall’organismo. Inoltre, i batteri lattici presenti nel lievito madre sono responsabili di reazione proteolitiche, ovvero di predigestione delle proteine, molto più intense di quelle operate dalla fermentazione alcolica; questo determina una maggiore digeribilità dei prodotti lievitati non causando fastidiosi gonfiori addominali, arricchisce gli alimenti di batteri lattici utili, conferisce un indice glicemico minore (anche utilizzando farine non integrali) oltre a permettere maggiori tempi di conservazione e donare una fragranza, un sapore e un aroma caratteristico. Tuttavia, la lievitazione ottenuta con pasta acida è un processo non facile da eseguire, lento, poco standardizzabile e che richiede tempo; viene perciò considerata un’arte legata alla panificazione casareccia.
Questo lievito è utilizzato oltre che nei prodotti da forno (pane, pizza, taralli, etc.) anche nella preparazione di dolci come il panettone, la colomba pasquale ed il pandoro, grazie alla sua capacità di lievitare impasti pesanti.

Nei lieviti chimici, al contrario, lo sviluppo di anidride carbonica non è dovuto al metabolismo di microrganismi bensì ad una reazione chimica, appunto, tra i suoi costituenti.   
Il lievito chimico più correttamente chiamato agente lievitante, è utilizzato nella preparazione di dolci; è in polvere e costituito da una base, un acido e un deumidificante per la conservazione. La base è generalmente rappresentata dal bicarbonato di sodio, indicato in etichetta con la sigla E500 conformemente al Regolamento CE1 129/2011 che modifica l'allegato II del regolamento CE 1333/2008 del Parlamento europeo e del Consiglio istituendo un elenco dell'Unione di additivi alimentari; l’acido può essere il difosfato disodico (E450) o il cremor tartaro (E336), noto anche come bitartrato di potassio, un sale di potassio dell'acido tartarico, di origine naturale in quanto estratto dall’uva. Durante la lievitazione avviene una reazione chimica acido-base e il bicarbonato di sodio rilascia anidride carbonica che crea delle bolle nell’impasto. Come il lievito al cremor tartaro, anche il comune lievito per dolci è reperibile in commercio in bustine, tuttavia, a differenza del primo che, come già detto, è di origine vegetale, contiene additivi che possono essere di origine animale.  
In generale, il lievito chimico, seppur più rapido da utilizzare, ha un’azione lievitante limitata, è insapore per cui si presta poco alla panificazione dove invece il sentore di alcol e acido lattico rappresentano requisiti essenziali. Questo tipo di lievito, inoltre, a differenza del lievito di birra e della pasta acida, non essendo protagonista di una vera e propria lievitazione, perché mancante di fermentazione microbica, non produce alcun effetto sull’intestino e sulla flora batterica.  
Il lievito deve essere dunque scelto in base al piatto che si deve realizzare; il lievito madre o pasta acida è dunque da preferire al lievito di birra nella panificazione e prodotti a lunga lievitazione mentre nella preparazione di dolci una valida alternativa, al comune lievito in polvere, è il lievito al cremor tartaro perché di origine naturale. In generale, anche nel caso dei lieviti, vale la regola del buon senso, sarebbe comunque preferibile evitare il consumo quotidiano di prodotti lievitati per mantenere un certo equilibrio a livello del microbiota intestinale.

Serena De Palma
Master in “Sicurezza, certificazione e comunicazione alimentare” ed.8

Marina Coviello
Master in “Alimentazione e nutrizione umana” ed.19

sabato 14 ottobre 2017

Affari d’oro con il cetriolo

Un cetriolo che vale oro. Parliamo dell’oloturia o cetriolo di mare, con alcune specie presenti anche nei nostri mari come l’Holothuria tubulosa, appartenente al phylum degli Echinodermi e presente in tutto il mar mediterraneo. L’oloturia, la cui pesca, effettuata a scopo alimentare, nelle acque dell’Estremo Oriente, sia nell’Oceano Indiano che nel Pacifico avviene da secoli, è nota come “trepang”. I cetrioli di mare sono consumati sia freschi che secchi previa reidratazione. Considerati una prelibatezza nella cucina orientale, in quella giapponese sono noti come namako nel sushi; in quella malese in una zuppa nota come trepang. Li ritroviamo anche in alcune nazioni europee come la Spagna conosciuti con il nome di espardeña. Dopo la cottura, l’oloturia assume una consistenza gelatinosa ed un aspetto trasparente e viene usata in zuppe e in condimenti vari. Proprio per le apprezzate e ricercate qualità alimentari, sono pescate in grande quantità per essere essiccate, congelate e successivamente esportate in particolare verso i paesi dell’Estremo Oriente. La richiesta arriva soprattutto dalla Cina, che risulta tra i primi nel mercato mondiale dei cetrioli di mare con oltre 20.000 tonnellate di prodotto essiccato destinato ogni anno al mercato cinese. Secondo i rapporti delle autorità internazionali un chilo di oloturie essiccate costa su questi mercati tra i 10 e i 600 dollari al chilo, mentre alcune specie considerate pregiate raggiungono anche i tremila dollari al chilo.
Purtroppo, accanto alla crescente richiesta sui mercati di questo prodotto, stiamo assistendo negli ultimi anni ad un prelievo indiscriminato ed un traffico illegale di cetrioli di mare lungo le coste italiane con un giro d’affari consistente che sembra aumentare sempre più. Risale solo a qualche giorno fa l’ultimo episodio di cronaca lungo il litorale dell’Area Marina Protetta di Porto Cesareo a Lecce. La presenza di troppi sub la mattina presto, ha insospettito i carabinieri della stazione locale, che a seguito dei controlli effettuati, ha sequestrato oltre di 150 kg di cetrioli di mare, a fronte dei cinque chili di oloturie consentite per ciascun pescatore subacqueo nell’ambito della sua attività giornaliera di pesca. Sempre in Puglia a Brindisi lo scorso anno la Capitaneria di Porto ha effettuato un sequestro di sei tonnellate di oloturie dirette in Grecia, dove sono trasformate e poi esportate in particolare verso la Cina. A Gallipoli, gli agenti del Nucleo Ispettivo Pesca della Direzione Marittima di Bari, nell’ambito dell’operazione denominata “Tallone d’Achille” hanno sequestrato circa 12 tonnellate di cetrioli di mare illecitamente detenuti da un’azienda creata ad hoc per la vendita delle oloturie all’estero, con un valore calcolabile sul mercato asiatico di circa 7,2 milioni di dollari. In Campania, a Pozzuoli a novembre scorso, una motovedetta dell’Ufficio circondariale marittimo, durante delle attività di controllo ha sequestrato oltre 120 kg di oloturie vive contenute in grossi vasconi e pronte per il mercato clandestino. In Sardegna, ad Alghero, una vedetta del Corpo forestale dello stato ha sequestrato a due sub circa 20 kg di cetrioli di mare, pescati illegalmente all’interno dell’area marina protetta. Un fenomeno dai risvolti preoccupanti, con un trend di crescita esponenziale, dovuto principalmente al fatto che sul mercato italiano un chilo di oloturie può arrivare sino a 600 euro. Da evidenziare che oltre la commercializzazione sui mercati esteri, è in aumento anche la crescita di un mercato tra le comunità orientali presenti in Europa, compresa quella italiana, che si stima solo per quella cinese residente in Italia a circa 250.000 unità. Inoltre, da non sottovalutare anche le crescenti abitudini alimentari degli italiani ed il proliferare di ristoranti orientali, giapponesi, thai etc., che costituiscono dei potenziali bacini per la commercializzazione delle oloturie.
Questo trend di prelievo indiscriminato in rapida crescita anche nei nostri mari dei cetrioli di mare, potrebbe costituire un serio danno per gli ecosistemi marini e un rischio non troppo remoto per la sopravvivenza degli stock naturali presenti nel Mediterraneo. Attualmente, lo sfruttamento della pesca dei cetrioli di mare è sottoposto a tutela nelle acque delle aree marine protette. Nelle acque non sottoposte a particolare tutela, le norme, come segnalato dal Corpo Forestale permettono un prelievo fino a 5 kg. Dal 2009 l'Oloturia rientra tra le specie protette, pertanto ne è vietato il prelievo: il nuovo Regolamento (CE) N. 407/2009 della Commissione Europea del 14 maggio 2009 che modifica il regolamento (CE) n. 338/97 del Consiglio, relativo alla protezione di specie della flora e della fauna selvatiche, ha inserito nuove specie protette tra le quali la Holothuria volgarmente: "oloturia" o "cetriolo di mare. Nell'allegato D, L 123 pag. 43, pubblicato sulla Gazzetta ufficiale dell' Unione europea del 19 maggio 2009, questo regolamento specifica l'aggiunta delle Holothuria nelle specie selezionate dalla CITES alla pari di tutti gli animali in via d'estinzione ed riportato anche nell’ultimo aggiornamento del Regolamento (CE) n. 1320 del 2014.
Questa pressione di pesca incontrollata preoccupa non poco anche molte associazioni ambientaliste per i danni incalcolabili e per i gravi squilibri che potrebbe procurare alla biodiversità marina, considerato il ruolo che giocano questi animali nell’ecosistema marino. A tal punto da temerne il rischio di estinzione, il circolo di Legambiente Manduria (TA) ha richiesto a dicembre scorso, misure urgenti a tutela delle Oloturie, inviando una comunicazione al Ministero dell’Ambiente, all’Assessore Regionale all’Ambiente e alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Taranto. I cetrioli di mare sono fondamentali per la loro funzione eco-sistemica, per l’opera di riciclo dei nutrienti e di pulizia dei fondali utili alla sopravvivenza dei coralli e delle praterie di Posidonia oceanica nei nostri mari. Infatti, sono organismi microfagi e detritivori, che si nutrono di materia organica morta e scartata; rivestono perciò la funzione di “spazzini del mare”, una sorta di “aspirapolvere” che contribuisce appunto a preservare i delicati equilibri degli ecosistemi marini e la biodiversità marina. Senza i cetrioli di mare, non potrebbe esserci buona parte del riciclo dei nutrienti. 
Non solo problematiche di tipo ambientale e danni agli ecosistemi marini, il consumo di oloturie preoccupa anche per questioni legate alla sicurezza alimentare. Essendo appunto un organismo filtratore al pari di molluschi bivalvi, come le cozze, etc. deve essere pescato in zone di mare non inquinate per la sua capacità di concentrare virus, batteri, biotossine algali, metalli pesanti etc. Dal punto di vista sanitario, della sicurezza alimentare e della tracciabilità è importante sapere che le oloturie si deteriorano abbastanza velocemente fuori dall’acqua e necessitano di particolari accorgimenti per preservare le qualità organolettiche e la freschezza delle carni. Le principali problematiche igienico-sanitarie sono legate alle attività non autorizzate, finalizzate alla trasformazione delle oloturie a scopo alimentare. La trasformazione, commercializzazione e somministrazione degli alimenti deve avvenire rispettando le norme igienico-sanitarie a tutela del consumatore. E’ evidente che in questo caso, la pesca e lavorazione abusiva in laboratori spesso clandestini dei cetrioli di mare, che venga fatta anche in violazione delle normative igienico-sanitarie di settore e si accompagna a scarsa igiene nella manipolazione degli alimenti e a scarsa preparazione degli operatori con gravi ripercussioni per la salute dei consumatori. Questa fortissima domanda di cetrioli di mare a scopo commestibile, che pone problemi legati ad un sovra sfruttamento della risorsa con gravi implicazioni sia tipo ambientale che igienico-sanitario, richiede l’adozione di misure adatte a contrastare questo fenomeno e va tenuta in debita considerazione.
 
Elvira Tarsitano 
Biologa, Esperta in Sicurezza alimentare

Tutte le facce del Sale

Insaporisce i cibi, può ridurre la cellulite, ha proprietà antimicrobiche, ma guai ad abusarne. Parliamo del sale, l'oro bianco dei nostri mari. Estratto nelle saline, affiora attraverso un processo di evaporazione solare per poi essere lavato e depurato in raffineria.Grazie alle sue proprietà batteriostatiche è stato utilizzato fin dall'antichità per conservare gli alimenti. Oggi i suoi usi hanno superato i confini della cucina: è utile in tintoria per fissare i colori, nella concia delle pelli, per produrre detersivi e sulle strade d'inverno per evitare che si formi il ghiaccio.

E' assunto dall’uomo che, però, da il meglio di sé. Sdoganata la sua funzione di mero ingrediente in gastronomia, il sale è necessario per il funzionamento del nostro organismo. L'equilibrio idrico del corpo dipende proprio dalle quantità assunte: se non se ne consuma a sufficienza si rischia la disidratazione, la perdita di peso o, peggio ancora, problemi gravi nello sviluppo fisico e mentale nel bambino o ancora il cosiddetto "gozzo" (ingrossamento della tiroide) negli adulti. Per combattere questi disturbi tutti dovuti alla carenza di iodio, si utilizza proprio il sale iodato, il comune sale da cucina ricavato dall'acqua di mare o dalle miniere di salgemma ed addizionato artificialmente di iodio. Ad essere sempre più esposti a questi problemi sono i vegetariani a causa del loro mancato consumo di prodotti di origine animale e per una dieta ricca di alimenti gozzigeni, ossia che apportano sostanze in grado di interferire con il metabolismo dello iodio (esempio: cavoli, rape, rucola, ravanello, soia, spinaci, miglio, lattuga).

L’abuso invece? Gli italiani rappresentano una delle popolazioni con il più alto tasso di sale ingerito: il consumo medio oscilla tra i 10 e i 14 g al giorno, ben oltre i 10 consigliati dai medici. L'utilizzo smodato non è causato dalla diffusa presenza della saliera sulle nostre tavole, ma dalla quantità di sale presente negli alimenti. La maggior parte del cloruro di sodio che ingeriamo deriva da prodotti salati durante la loro preparazione (salumi, formaggi, succhi di frutta, bibite). Assumerne più di 4/5 g al giorno: danneggia lo stomaco, aumenta il calcio nei reni, è fonte di malattie cardiache e cerebrali, favorisce la ritenzione idrica e la formazione di edemi. Importante anche l’effetto sulle ossa: può provocare un'accelerazione del processo osteoporotico nelle donne in post-menopausa e una generale riduzione dei picchi di massa ossea in età adolescenziale. Da non trascurare un altro aspetto: il sale stimola l'appetito. Più un cibo è salato, più ne mangiamo. Ecco perché viene sconsigliato durante le diete dimagranti. 

L’altra faccia della medaglia, però, racconta di un minerale naturalmente disintossicante che può essere utilizzato per liberare la pelle dai composti tossici che si sedimentano tra gli strati. Proprio le sue proprietà drenanti e rimodellanti lo rendono un componente fisso nei trattamenti di bellezza nonché nella cura della cellulite.


Tanti i tipi di sale in commercio, ognuno con delle qualità tutte da scoprire. Protagonista assoluto del benessere il famigerato sale rosa dell'Himalaya (chi non l'ha mai sentito?), che prende il suo colore dalla accentuata presenza di ferro. Non è sottoposto ad alcuna raffinazione ed è privo di contaminazioni ambientali. Ricco di zinco, rame e ferro, è completamente assimilabile dall'intestino ed è l'unico che contiene tutti gli oligoelementi di cui abbiamo bisogno.

Con il nome di "caviale del sale" si indica, invece, il Sale della Camargue o Fior di sale (Fleur de sel). Si tratta di un sale grezzo, dal colore bianco opaco, prodotto nel sud della Francia, raro, pregiato e iposodico. Tutte queste caratteristiche lo rendono un ingrediente richiesto dagli chef di tutto il mondo. Un suo equivalente italiano è il sale di Cervia o quello di Trapani.


Per il suo carattere scenografico gli chef prediligono anche il sale rosso delle Hawaii. Il suo colore deriva sempre dalla quantità di ferro (oltre cinque volte quella del comune sale da cucina) ed è utilizzato per accompagnare carne e pesce grigliati, nonché per decorare i piatti.

Ideale per condire pesce bianco, uova e zuppe è invece il sale nero di Cipro. Raccolto dalle acque dell’isola, è arricchito con carbone vegetale ottenuto dalla combustione delle cortecce di legno dolce, quali tiglio, betulla e salice che gli conferiscono questo colore. E' sfruttato anche nella cura di malattie intestinali, intossicazioni e avvelenamento.

Noto per il suo colore simile agli zaffiri è il sale blu di Persia. Il blu è dovuto alla silvinite, un minerale che raramente assume questo colore (solitamente è giallo o rosa), ed è estratto dalle miniere di sale dell'Iran. Caratterizzato da un gusto speziato, lo si utilizza come comune sale da tavola per condire i piatti o, in grani, per decorarli. Questo sale è ricco di magnesio e calcio, indispensabili per lo sviluppo di ossa e denti, e potassio, un elemento utile per prevenire e combattere disordini del ritmo cardiaco, crampi muscolari e sensazioni di affaticamento e spossatezza.

Ultimo e non meno importante, il sale affumicato. La sua storia risale al tempo dei vichinghi, i primi che con un particolare procedimento trattarono il sale marino appunto affumicandolo, attraverso la combustione del legno. Dall’albero utilizzato dipende il colore e l'aroma.


Elvira Tarsitano
Biologa, Esperta in Sicurezza alimentare

Tonno rosso o tonno dal colore rosso? Mangiare con gli occhi

Prima di rispondere a questa domanda è necessario fare una premessa. Il tonno rosso è una specie molto pregiata, dall’alto valore commerciale sia per le sue caratteristiche organolettiche, ma soprattutto perché è una specie in via di estinzione tutelata da diversi regolamenti europei che hanno lo scopo di ridurre lo sforzo di pesca e permettere il riequilibrio tra le quantità di tonno rosso pescato e la capacità riproduttiva dell’animale. A questa specie così pregiata corrisponde però solo il nome scientifico Thunnus thunnus e non altri nomi come Thunnus albacares, che fa riferimento ad un’altra specie: Tonno a pinne gialle, ottimo dal punto di vista nutrizionale, ma che non ha lo stesso valore commerciale del suo “cugino” Tonno rosso. Perciò prima dell’acquisto in pescheria è necessario prestare attenzione alle informazioni riportate obbligatoriamente in etichetta ed è diritto del consumatore richiedere anche questa informazione nel caso di consumo di tonno rosso in un ristorante. Ma questa non è l’unico inganno a cui è esposto il consumatore che vuole consumare dell’ottimo tonno.



Oramai siamo abituati ad associare il colore rosso ciliegia vivace delle carni ad un prodotto freschissimo, ma in natura questo colore così brillante non esiste. Il colore delle carni del tonno è molto scuro, in quanto questo pesce è un ottimo nuotatore e percorre molti Km nell’arco della sua vita; perciò i suoi muscoli sono molto sviluppati e per potersi contrarre hanno bisogno di una fitta rete di vasi sanguigni che portino ai muscoli la giusta concentrazione di ossigeno. Questa ricca vascolarizzazione fa assumere alle carni una colorazione rosso-bruno intensa; come tutte le carni però l’esposizione all’ossigeno presente nell’aria che respiriamo rende queste carni, per un processo normale di ossidazione ancora più brune. È fondamentale ricordarsi questi colori al momento dell’acquisto, perché purtroppo la richiesta dei consumatori, ignari, di filoni di tonno con una colorazione rossa-rosata ha portato le aziende che lavorano questi prodotti a utilizzare tecniche anche non autorizzate, per poter garantire un tonno che mantenesse questa caratteristica colorazione il più a lungo possibile per incrementare le vendite.

Fra queste tecniche la più pericolosa è l’utilizzo di additivi a base di estratti vegetali che sono utilizzati non tanto per le loro caratteristiche aromatiche quanto perché ricchi di due molecole il nitrato e il nitrato di sodio, in grado di trasformare le carni rosso-brune del tonno in carni rosso ciliegia e di stabilizzare questo colore rosso per lungo tempo. Queste molecole sono state autorizzate solo per la produzione di insaccati come salami e salsicce stagionate, per la loro attività contro un batterio molto pericoloso come Clostridium botulinum; tuttavia la dose consentita è molto bassa e questo permette di tutelare la salute dei consumatori. Diversamente, invece, non è stato autorizzato il loro utilizzo nel pesce, neanche in piccole dosi, perché il loro utilizzo per stabilizzare il colore rosso inganna il consumatore sulla freschezza del prodotto e rappresenta un serio rischio per la salute dei consumatori. Infatti, a fronte di un colore rosso ciliegia stabile nel tempo, questi additivi non limitano allo stesso tempo la crescita batterica che soprattutto in questa specie potrebbe portare alla formazione di alti livelli di istamina in un prodotto non più fresco e dunque alla manifestazione della così detta “sindrome sgombroide” che si presenta con crampi addominali, nausea, vomito, diarrea, arrossamenti della cute del viso e del collo, sensazione di intenso calore, mal di testa e nei casi più gravi di soggetti sensibili si può avere anche uno shock anafilattico. Ma oltre a questa problematica bisogna considerare che i nitrati e nitriti sono stati classificati dallo IARC (Agenzia Internazionale di Ricerca sul Cancro) come “probabilmente cancerogeni per gli esseri umani (Gruppo 2A)”; oltre al fatto che una volta ingeriti a livello intestinale queste molecole subiscono delle modificazioni durante la digestione che portano alla formazione di nitrosammine, sostanze dichiarate cancerogene dall’IARC. In più se si considera che nella maggior parte dei casi tale prodotto si consuma previa cottura e che proprio il trattamento termico (che non si verifica negli insaccati stagionati) può determinare la formazione delle tanto temute nitrosammine, si può comprendere l’importanza del divieto di utilizzo di questi additivi nei prodotti ittici e in particolare nel tonno. Perciò d’ora in avanti sarà opportuno cominciare a fare molta più attenzione alle etichette dove è riportata la specie e la data entro cui consumare il tonno e non scegliere questo prodotto solo in base al suo colore. Inoltre, il tonno non additivato è un prodotto molto deperibile, per cui sarà importante una volta acquistato conservarlo subito in frigorifero e una volta preparato consumarlo nel più breve tempo possibile.
 

Simona De Santis e Elvira Tarsitano
Esperte in Sicurezza alimentare

Sano, sfizioso, nutriente: il gelato

Tutti, ma proprio tutti, i segreti dell’alimento più amato dell’estate. Sano, sfizioso, nutriente: il gelato.
Il gelato "è una preparazione alimentare portata allo stato solido mediante congelamento concomitante o posteriore all'impiego degli ingredienti, destinata ad essere immagazzinata, venduta e consumata in tale stato". Il prodotto così ottenuto può essere considerato un sistema a tre stadi (liquido, solido e gassoso), presenti in diversa percentuale. Il gelato può essere considerato un alimento piuttosto completo, spesso ricco in calorie (quelli confezionati con latte, uova, crema e panna), valido come dessert o come spuntino. I gelati meno calorici sono quelli alla frutta. Frutta e verdura sono alimenti ricchi di acqua, di minerali e di vitamine e sono in grado di mantenere equilibrato un patrimonio di elementi indispensabili al buon funzionamento dell'organismo.

Le fasi necessarie per la sua preparazione sono 6: il dosaggio delle materie prime; la miscelazione; la pastorizzazione; l’omogeneizzazione; la maturazione; il processo di congelamento.

Nella scelta degli ingredienti oggi le basi costituiscono un supporto indispensabile per i produttori di gelato e ne esistono di tutti i tipi: dalle più semplici fino alle più complete. Si parte da quelle che contengono solo miscele di additivi, per avere poi quelle che vi aggiungono mano a mano zuccheri, tuorli d'uovo in polvere, grassi vegetali i e aromi, fino ad arrivare a quelle che richiedono la sola aggiunta di latte e/o acqua e paste aromatizzanti. Da un punto di vista chimico è un miscuglio di sostanze disperse in una fase acquosa, a temperatura più o meno bassa e distribuite in modo più o meno omogeneo. Il gelato è un prodotto alimentare ottenuto a partire da una miscela liquida sottoposta a concomitante congelamento e agitazione e così consumato. Il processo di agitazione fa inglobare aria alla miscela e rende il prodotto morbido e omogeneo. In tale senso l'aria potrebbe essere considerata un ingrediente fondamentale. La miscela è costituita da acqua, proteine, grassi e zuccheri in opportuno equilibrio fra loro. Dette sostanze sono apportate dagli ingredienti di miscela.

Tecnicamente si distinguono due tipi di miscela: quella a base di acqua (usata per produrre i gelati di frutta) e quella a base di latte. Nelle miscele a base di latte sono ingredienti fondamentali: Latte, panna, uova, zuccheri, aria. L'aria è un ingrediente fondamentale, vera e propria materia prima l'aria garantisce (in giusta dose): consistenza; morbidezza (tessuto soffice); gradevolezza (palabilità).
 

Elvira Tarsitano
Biologa, Esperta in Sicurezza alimentare

100% vegetale? Riflettori accesi sui prodotti senza latte

In alternativa a quelle di origine animale, ci sono molte varietà di panna vegetale sul mercato, le versioni più popolari senza latte e derivati sono vendute anche come light. Tecnicamente è un prodotto ottenuto da una miscela di additivi emulsionanti, con aggiunta di acqua, di diversi grassi di origine vegetale e di altri prodotti anche derivati del latte e altri additivi come conservanti, stabilizzanti, ecc. I consumatori possono essere tratti in inganno e pensano che questi prodotti siano più leggeri e che possono essere inseriti in una dieta ipocalorica. Inoltre, la dizione vegetale fa presupporre l’assenza di prodotti di origine animale. 
Ma è veramente così? Se diamo una rapida occhiata alle etichette scopriamo che gli ingredienti più diffusi sono: acqua, grassi vegetali idrogenati, zucchero, caseinato di sodio (E469), siero di latte in polvere, stabilizzanti: E420ii, E463, emulsionanti: E472e, E322, E472b, E435, sale, aromi, coloranti E160a, sciroppo di glucosio, amido di mais, aromi.
Il caseinato di sodio deriva dalle caseina che costituisce la frazione proteica insolubile del latte. Il siero di latte è la parte liquida del latte che si separa dalla cagliata durante la caseificazione. Il siero di latte in polvere, è utilizzato anche come additivo in altri prodotti alimentari come i prodotti a base vegetale. Questi prodotti possono determinare reazioni allergiche nei soggetti predisposti, e queste reazioni possono essere di notevole entità. 
E' dunque raccomandabile controllare con attenzione le etichette per verificare la presenza o l'assenza di alcuni additivi utilizzati come stabilizzanti, antiossidanti e conservanti, oltre alla tipologia di grassi vegetali che devono essere riportati chiaramente. In generale, presentano indubbi vantaggi dal punto di vista della praticità, della facilità di conservazione e della versatilità, sono spesso accompagnati da valori nutrizionali che rimangono standard durante tutto il periodo di produzione. Nonostante questo, sono prodotti sconsigliati in un regime alimentare sano ed equilibrato, perché contengono sia additivi, che grassi idrogenati potenzialmente nocivi e quindi in dosi massicce possono diventare pericolosi. Oltre ad essere prodotti con ingredienti di scarsa qualità e quindi non possono avere caratteristiche organolettiche elevate.

Elvira Tarsitano
Biologa, Esperta in Sicurezza alimentare

giovedì 12 ottobre 2017

Cocktail, il piacere del gusto

Sono sicuri i cocktails che beviamo o corriamo alcuni rischi?  
Cocktail, una bevanda molto strana, dal fascino e mistero, che seduce, inebria, rilassa e che mette di buonumore. Ci sarebbero molte notizie da conoscere, per capire meglio quella straordinaria “cosa” che chiamiamo cocktail. Anzi, queste informazioni sono tali e tante che, a impegnarsi nello studio per conoscerle tutte, forse non resterebbe più tempo per berne nemmeno un bicchiere di questa straordinaria bevanda. Cosa c’è di meglio di un bel cocktail ghiacciato per rinfrescarsi durante il caldo torrido? Ma sono sicuri i cocktails che beviamo o corriamo alcuni rischi? Come per tutti gli alimenti, anche per i cocktails se non si rispettano le normali prassi igieniche nella preparazione e nell’igiene del personale ci possono essere rischi per la salute dovuti a contaminazioni.  

Ghiaccio
Uno degli ingredienti più usato per la preparazione dei cocktails è il ghiaccio. La qualità del ghiaccio che beviamo è molto importante per la salute sia di chi lo produce, che di chi lo consuma. Con il congelamento non si ha garanzia di inattivazione di eventuali patogeni responsabili di malattie presenti nell’acqua, ma solo una loro attenuazione e il rischio di contaminazione è elevatissimo sia durante la produzione che nella conservazione. Bar, discoteche, pub, ristoranti producono ghiaccio con appositi macchinari, ma spesso a causa della cattiva manutenzione e pulizia, il ghiaccio prodotto non è adatto per uso alimentare. Uno degli errori più frequenti per chi produce il ghiaccio con queste macchine è quello di non utilizzare la palettina apposita per servirsi del ghiaccio utilizzando contenitori approssimati che non sono deposti nell’apposito alloggiamento dopo l’uso, ma lasciati in giro su ripiani vari con il risultato di aumentare le possibilità di contaminazioni. Perciò, le buone prassi igieniche sin dalla fase di produzione sino alla somministrazione sono fondamentali.

Durante la preparazione dei cocktails, bisogna fare molta attenzione e osservare alcune regole fondamentali per evitare contaminazioni: mai toccare il ghiaccio con le mani o con il bicchiere tumbler (questa è una pratica molto utilizzata), la parte esterna viene sempre toccata con le mani, ma servirsi sempre di una pinza o dell’apposito cucchiaio forato. Stesso discorso vale per tutti gli attrezzi che si utilizzano, tipo i rompighiaccio e i contenitori dove il ghiaccio viene conservato. Spesso le vaschette utilizzate sono aperte o peggio sono le stesse dove prima si trovavano le bottiglie di liquori e altre bevande o addirittura sono conservati in bustoni di plastica come quelli per la spazzatura non idonei alla conservazione degli alimenti. Ovviamente questi errori vanno evitati a garanzia della sicurezza del prodotto. Per la qualità dell’acqua utilizzata è opportuno attenersi alla regola di effettuare i dovuti controlli se si usa l’acqua di rete, così come porre molte attenzione ad eventuali contaminazioni crociate e successive. 

Altri ingredienti usati nella composizione dei cocktails 
Altri ingredienti molto utilizzati nella composizione dei cocktails, sono la frutta e/o la verdura che deve essere ben lavata. La frutta se servita con la buccia, la scarsa igiene del personale e delle attrezzature, l’utilizzo dello stesso coltello per tagliare alimenti crudi, possono determinare durante le fasi di preparazione dei cocktails contaminazioni sia di tipo microbiologico che chimico. Basti pensare che dati ufficiali forniti dall’EFSA tra la frutta e verdura in cui sono stati trovati maggiori tracce di residui di pesticidi interferenti spiccano pomodori, cetrioli, mele, pesche, e fragole che sono tra quelli maggiormente utilizzati nella preparazione di cocktails. Ma preparare un cocktail sicuro con tutte le dovute attenzioni alle norme igieniche non basta. Ci sono altri pericoli in agguato. Oltre agli ingredienti utilizzati per la preparazione dei cocktails, bisogna prestare molta attenzione anche alla qualità igienica degli stuzzichini (olive, tarallini, patatine, arachidi, noccioline, etc.) che sono serviti per accompagnare la bevanda. Di sovente ci si imbatte in “Happy Hour” (la moda del momento di servire aperitivi), dove gli stuzzichini sono serviti sfusi in ciotole sul bancone del bar, dove i clienti si servono con le proprie mani o nella migliore delle ipotesi, con un cucchiaio che viene spostato da una ciotola all’altra. La cosa si complica, se oltre agli stuzzichini il buffet si arricchisce di tartine, pizzette, briochine dolci e salate, alimenti che in alcuni casi sono anche farciti con creme e salse varie (maionese, etc), prodotti di gastronomia (insalate russa, capricciosa), alimenti a base di carne o pesce o uova, alimenti crudi mescolati con alimenti cotti in unico piatto. Tutti questi alimenti elencati, necessitano di diverse temperature di conservazione, la cosa più corretta sarebbe allestire dei buffet a temperatura controllata. Per i piatti caldi la temperatura di esposizione deve essere maggiore di +60°C, per insalate e verdure sui +10°C, per cibi cotti serviti freddi sotto i +10°C e per alimenti crudi a +4°C. Invece, spessissimo questi alimenti di accompagnamento ai cocktails, sono serviti a temperatura ambiente per diverse ore, senza adeguata copertura e senza o pochi utensili. Non rispettare le temperature, espone i prodotti alimentari ad una graduale e pericolosa moltiplicazione batterica che potrebbe determi-narne il deterioramento o peggio essere causa di una tossinfezione del consumatore. Maggiore è il tempo di esposizione a T° ambiente, maggiore è il rischio. Spesso, questi sono alimenti frequentemente ricchi di microrganismi, apportati dalle materie prime e dalla preparazione fatta spesso in situazioni ambientali disagevoli e in condizioni igieniche precarie (mancanza di spazio, mescolanza di ingredienti crudi e cotti, manipolazione). Le insalate russe, le insalate capricciose, le salse a base di uova, il vitello tonnato contengono una lista di microrganismi fin troppo lunga da riportare. Certamente, stafilococchi, clostridi, salmonelle, listerie e Campylobacter vi primeggiano. Tali condizioni possono provocare intossicazioni ed infezioni alimentari anche gravi responsabili di Malattie Trasmesse da Alimenti (MTA). 

Campylobacter
Molti dei locali, specialmente bar, o piccoli chioschetti di strada, dove sono somministrati i cocktails accompagnati da buffet con alimenti vari, sono privi di veri e propri locali tipo cucine e gli alimenti sono preparati e manipolati sui banconi di lavoro e da personale poco esperto nella preparazione. L’attenzione anche agli spazi di lavoro è fondamentale. Questi devono essere sufficienti a garantire che durante le varie fasi di lavorazioni non si verifichino contaminazioni crociate e devono rispettare la normativa prevista sull’igiene degli ambienti di lavoro. In ogni caso, la superficie va valutata in funzione del numero degli addetti, dell’ingombro delle attrezzature utilizzate, della qualità e della quantità delle lavorazioni e delle caratteristiche delle preparazioni. 

Alcune regole molto semplici da adottare a tutela della sicurezza degli operatori e dei consumatori nella preparazione di cocktails sono: la presenza almeno di una zona attrezzata del banco o del retrobanco adeguatamente protetta sul lato clienti, dedicata alle operazioni di preparazione e dotata di specifico lavello. Per la vendita-somministrazione di stuzzichini, antipasti, ed altre preparazioni alimentari di accompagnamento ai cocktails, i prodotti alimentari dovranno essere serviti solo al momento dell’ordinazione da parte del cliente. Sia gli ingredienti utilizzati per la preparazione dei cocktails che gli alimenti serviti come accompagnamento, dovranno essere conservati in vetrine o reparti con le opportune protezioni nei confronti delle contaminazioni esterne ed accidentali; inoltre gli alimenti deperibili dovranno essere mantenuti nel rispetto delle temperature richieste. Dovrà essere prevista una zona attrezzata e protetta dedicata alle connesse attività di porzionatura, preparazione e manipolazione. Il lavaggio di frutta e/o verdura da utilizzare per la preparazione deve essere eseguito in apposita vasca convenientemente dimensionata, preferibilmente dotata di rubinetteria a comando non manuale. Perciò, quando vi recate in bar per degustare un cocktail verificate che il personale addetto alla preparazione segua le norme igieniche previste e che la preparazione e la somministrazione delle bevande e alimenti avvenga con l’osservanza della buone prassi igieniche. Verificate che le condizione igieniche e di manutenzione del locale (soffitti, pavimenti, arredi e infissi del locale, servizi igienici, ecc.). La presenza di ragnatele o di polvere sulle mensole, la pulizia dei pavimenti, la collocazione dei rifiuti, la presenza di sapone e salviette nei servizi igienici, ecc.). Il grado d’Igiene personale del pizzaiolo/cuoco, il quale deve avere le unghie corte, non deve portare anelli e bracciali, deve indossare una divisa chiara e pulita (maglia e pantalone), un grembiule monouso e un copricapo che raccolga tutta la capigliatura, vista la carica batterica elevata dei capelli; il grado d’Igiene personale dei camerieri, i quali devono avere l’abbigliamento da lavoro pulito e ordinato. 

Occhio alle calorie ed al contenuto alcolico 
Long, short oppure hot drink, non importa, l’importante è che la sete si plachi. Al bar, in discoteca e anche a casa, ogni luogo è quello giusto per gustare un buon cocktail, ma attenzione, bisogna bere con moderazione e stare attenti alle calorie. Bisogna conoscere il valore calorico della bevanda che stiamo gustando e bisogna sommare le calorie della bevanda a quelle del cibo assunto. Tenere conto della differenza tra una bevanda alcolica ed una analcolica (per esempio con frutta, zucchero, oltre in alcuni casi anche la presenza di additivi vari tra cui coloranti, aromi artificiali, dolcificanti), sia in termini calorici, che di alcool assunto che dipende dal mix di alcolici usato nella preparazione del cocktail. Tra i Cocktails più calorici spicca il Long Island con 720 calorie, Margarita e e Pina Colada circa 650. Tra i meno calorici il Mojito con circa 195 calorie, la Tequila sunrise con circa 190, la Sangria con circa 173, il Bloody Mary con circa 123 e il Gin Tonic con circa 112 calorie. 


È opportuno ricordare che:
  1. La dose quotidiana di alcol che una persona in buona salute può concedersi senza incorrere in gravi danni non può essere stabilita da rigide norme, poiché le variabili individuali sono davvero tante: quella che è considerata una dose moderata per un individuo può essere eccessiva invece per un altro. Un consumo moderato può essere indicato entro il limite di 2-3 U.A. al giorno (pari a circa 2-3 bicchieri di vino) per l’uomo e di 1-2 U.A. per la donna. Tale quantità, da assumersi durante i pasti, deve essere intesa come limite massimo oltre il quale gli effetti negativi cominciano a prevalere su quelli positivi;
  2. nei casi in cui non si consumi solo vino, bisogna imparare a tener conto di tutte le occasioni di ingestione di altre bevande alcoliche che si presentano nel corso della giornata (birra, aperitivi, digestivi e superalcolici nelle varie forme) e calcolare il numero di U.A. introdotte;
  3. bisogna fare in modo che non siano superate le capacità del fegato di me-tabolizzare l’alcol;
  4. bere con moderazione, quindi, certamente significa bere poco, ma anche evitare di bere in maniera troppo ravvicinata, così da permettere al nostro organismo di smaltire meglio l’etanolo;
  5. le bevande alcoliche ad alta gradazione (grappa, whisky, vodka, ecc.), che, per caratteristiche e consuetudini, vengono assunte fuori pasto, devono essere considerate con la massima attenzione oppure evitate del tutto, specialmente se a stomaco vuoto;
  6. bisogna anche evitare di consumare bevande alcoliche in maniera concen-trata nel fine settimana, abitudine invece diffusa in molti Paesi occidentali;
  7. bisogna inoltre usare particolare cautela in certe ben identificate fasi della vita e in certi gruppi di popolazione a rischio. Nell’infanzia e nell’adolescenza occorre evitare del tutto l’uso di bevande alcoliche, sia per una non perfetta capacità di trasformare l’alcol, sia per il fatto che più precoce è il primo contatto con l’alcol, maggiore è il rischio di abuso. Le donne in gravidanza e in allattamento dovrebbero astenersi completamente dal consumo di alcolici, o comunque diminuire drasticamente le dosi (1 U.A. una volta o al massimo due volte la settimana). L’alcol infatti si distribuisce in tutti i fluidi e le secrezioni e quindi arriva al feto, attraversando la barriera placentare, e al bambino, tramite il latte, rischiando di provocare seri danni. Nell’anziano l’efficienza dei sistemi di metabolizzazione dell’etanolo diminuisce in maniera rilevante e il contenuto totale di acqua corporea è più basso; è perciò consigliabile limitare il consumo di alcolici ad 1 U.A. al giorno;
  8. estrema attenzione deve essere posta al problema delle interazioni tra alcol e farmaci. Chi segue una qualsiasi terapia farmacologia deve consigliarsi con il proprio medico curante sull’opportunità di bere alcolici. Identica attenzione deve essere rivolta anche ai comuni farmaci da banco, per molti dei quali è da suggerire l’astensione dal consumo concomitante degli stessi.
Elvira Tarsitano
Biologa, Esperta in Sicurezza alimentare

Non chiamateli bastoncini di granchio


Del crostaceo hanno solo il colore e una serie di additivi che ne mimano il sapore per prendere in giro il nostro palato. I surimi, bastoncini di colore arancione all’esterno e bianco all’interno, formati da una sfoglia arrotolata che gli conferisce la caratteristica forma cilindrica, rubano il nome dal giapponese dove surimi significa “pesce tritato”, ma di esotico non hanno davvero nulla. 
La loro lavorazione avviene impiegando le parti di scarto di altri alimenti come merluzzo, sgombro, suri, nemipteri e differenti specie di carpe asiatiche. La polpa impiegata per la produzione proviene da avanzi di altri processi di preparazione di alimenti tramite vari macchinari. Gli scarti vengono lavorati industrialmente, pressati e addizionati con sostanze chimiche di vario genere che permettono alla poltiglia ottenuta, di colore bianco, praticamente insapore, di acquisire un aspetto ed un gusto migliore. Per la conservazione, prima del congelamento vengono aggiunti sale, zuccheri e polifosfati. Nelle fasi successive il surimi viene addizionato con coloranti per ottenere le tipiche tonalità rosse o arancioni che ne caratterizzano la superficie esterna. 
Alimento classificato come ricco di proteine(solo 8-13%) e povero di grassi (0,1% circa), è costituito per il 60%-70% di ingredienti che non contengono pesce: fecola di patate, per migliorare la conservazione a basse temperature; albume d'uovo, come colorante per ottenere tonalità più chiare e un aspetto più lucido; grassi vegetali e aromi artificiali di granchio o di aragosta per renderlo più appetibile. Il tutto ottenuto con profonde manipolazioni ed attraverso varie fasi di cottura, congelamento e scongelamento. Il prodotto subisce, inoltre, numerosi lavaggi che lo portano ad essere povero di vitamine e di sali minerali. Tra gli esaltatori di sapidità utilizzati c’è il glutammato monosodico (E653) e oli vegetali di scarsa qualità, come l'olio di colza e l'olio di palma, vengono impiegati per la produzione. E se questo ancora non basta a rendere l’alimento particolarmente nocivo per il nostro organismo le considerevoli quantità di sodio aggiunte nell’impasto che lo rendono controindicato per gli ipertesi o per chi soffre di patologie renali.
Ben poco da spartire, quindi, con la ricetta originaria giapponese molto semplice: un "battuto" (tritato a coltello) di polpa di merluzzo nordico Pollack cotto in acqua bollente (lessato), spianato e successivamente avvolto con alghe o altri vegetali. Anche il prezzo è solo all'apparenza economico e viene giustificato dal fatto che il surimi sembra perfetto per una cena estiva, si prepara in fretta e si consuma freddo. Peccato che con la stessa cifra si possa acquistare pesce pinnato, senz’altro più consigliabile per un'alimentazione sana e naturale. La praticità di consumazione e il gusto sono le bugie che ingannano il consumatore. La composizione reale dei surimi, infatti, resta tutt’oggi dubbia: non esistono al momento degli obblighi di legge che impongano l'indicazione in etichetta delle specie ittiche utilizzate per la produzione. Il tutto è nelle mani e nella serietà delle aziende produttrici che potrebbero impiegare materie prime di scarsa qualità, scadenti, o addirittura tossiche.

Elvira Tarsitano
Biologa, Esperta in Sicurezza alimentare

mercoledì 11 ottobre 2017

Formaggio fuso a fette: è corretto chiamarlo formaggio?

Del formaggio hanno sicuramente il colore e una serie di additivi emulsionanti, i sali di fusione che consentono appunto di fondere, caratteristica che ne ha decretato il successo e la diffusione. 
Le fettine quadrangolari di formaggio fuso pesano singolarmente 25 grammi e ognuna ha un valore calorico di circa 60 Kcal. Sono composti da uno o più formaggi spesso di scarsa qualità di cui nella maggior parte dei casi non si indica né la percentuale e tantomeno la provenienza. Oltre ai sali di fusione: polifosfati (E452) o citrati (di sodio E331; di potassio E332; di calcio E333), possono contenere latte in polvere, proteine del siero, grasso del latte, burro o grassi vegetali, condimenti, sale, correttori di acidità (acido citrico E330), altri stabilizzanti (E450), antiossidanti (E361) e conservanti come l’E250. In particolare quest’ultimo, il nitrito di sodio di origine sintetica è sconsigliato nell’alimentazione dei bambini perché può compromettere il sistema immunitario con distruzione della microflora e di conseguenza può aumentare il rischio di infezioni. Non di meno sono gli additivi, come i polifosfati che possono impedire l’assimilazione del calcio soprattutto durante la crescita. Infatti, questi additivi sono vietati negli alimenti per l’infanzia. Perciò, è sicuramente sconsigliato, il formaggio fuso a fette nella dieta di bambini durante le fasi di crescita.

Se questo ancora non basta a rendere l’alimento particolarmente controindicato per il nostro organismo, le considerevoli quantità di sale aggiunto nell’impasto (circa un grammo per ogni fetta), lo rendono controindicato, oltre che per i bambini ed adolescenti, anche per alcuni adulti come gli ipertesi o per chi soffre di patologie renali, considerato che la dose giornaliera di sale da consumare per un adulto è massimo di 5 grammi. Se consumiamo un toast pensando di consumare un alimento light facciamo un grave errore, basti pensare che al grammo di sale ed alle 60 calorie della fettina di formaggio fuso ci sono da aggiungere anche quelle del prosciutto cotto o crudo. Addirittura con il consumo di un solo toast, un bambino o adolescente può superare il quantitativo di sale giornaliero consigliato. Inoltre, da non sottovalutare l’elevato apporto calorico che lo rendono un alimento da sconsigliare per chi segue diete per il controllo del peso. Così come ne è sconsigliato il consumo in soggetti con particolari patologie come l’ipercolesteremia, considerato tra l’altro anche la presenza di ingredienti come il burro o altri grassi vegetali.
La praticità di consumazione, preparazione e il gusto sono le indicazioni che possono ingannare il consumatore e sarebbe necessaria una maggiore chiarezza. La composizione reale dei formaggi, infatti, resta tutt’oggi dubbia: non esistono al momento degli obblighi di legge che impongano l'indicazione in etichetta del tipo di formaggio e/o del latte utilizzato per la produzione che rimane a discrezione del produttore, che lo indica in alcuni casi solo per esaltarne la qualità. Il tutto è nelle mani e nella serietà delle aziende produttrici che potrebbero impiegare materie prime di scarsa qualità, scadenti, o addirittura scadute. Infatti, tra le frodi più frequenti, come riportato da recenti fatti di cronaca, c’è l’utilizzo di formaggi scaduti che vengono rifusi ed utilizzati come ingrediente principale nel prodotto.
Anche il prezzo è solo all'apparenza economico e viene giustificato dal fatto che il formaggio fuso a fette sembra perfetto per la sua praticità. Peccato che con la stessa cifra si possa acquistare del formaggio (latte fresco, caglio e sale), seppur con moderazione ed in soggetti sani, senz’altro più consigliabile per un'alimentazione sana e naturale
Infine, considerato che la stragrande maggioranza del formaggio fuso a fette contiene latte in polvere, considerato che in Italia che esiste una legge (la n.138 del 1974), che vieta categoricamente di produrre latte o formaggi utilizzando, anche solo in parte, il latte in polvere, è corretto chiamarlo formaggio?

Elvira Tarsitano
Biologa, Esperta in Sicurezza alimentare

Succhi di frutta. Alternativa alla frutta?

Chi non ha mai bevuto un succo di frutta da bambino? Poiché viene considerata una valida alternativa alla frutta, viene consumato s...