Cosa c’è negli alimenti che consumiamo? Sofisticazioni e adulterazioni, fast food e take away, intolleranze e allergie, anoressia e obesità. Il modello di Dieta Mediterranea è stato messo a dura prova dalle trasformazioni, industriali e sociali, avvenute negli ultimi cinquant’anni in Italia, che hanno determinato radicali cambiamenti nelle abitudini al consumo alimentare.

venerdì 26 gennaio 2018

Succhi di frutta. Alternativa alla frutta?




Chi non ha mai bevuto un succo di frutta da bambino? Poiché viene considerata una valida alternativa alla frutta, viene consumato sia da adulti che bambini. Ma è davvero così?

I succhi di frutta confezionati sono sicuramente appetibili e pratici ma non possono essere considerati dal punto di vista nutrizionale validi al pari di un frutto. I succhi confezionati vengono sottoposti ad un processo di pastorizzazione che fa si che si perdano numerose proprietà, come le vitamine termolabili e induce l’alterazione dei Sali minerali. Inoltre, con l’estrazione del succo dalla frutta, si perde una componente fondamentale ovvero la fibra, la quale è necessaria per il buon funzionamento dell’intestino, ha una attività ripulente e consente di digerire ed assorbire più lentamente gli zuccheri semplici della frutta.

In commercio, ci sono diverse tipologie di bevande contenenti frutta: ad esempio, ci sono succhi 100% frutta, prodotti dalla spremitura del frutto senza l’aggiunta di edulcoranti, conservanti in quanto gli acidi che contengono naturalmente fungono da conservanti; tra i succhi 100% frutta ci sono succhi di mela, arancia, pompelmo e ananas, ma bisogna prestare comunque molta attenzione all’etichetta. Ma non tutta la frutta può essere sottoposta a questo trattamento, frutta come pesca, pera ed albicocca viene trasformata in nettare: la polpa del frutto viene mescolata con acqua, zuccheri addensanti ed acidificanti.
Dal punto di vista nutrizionale, i succhi di frutta non possono considerarsi delle bevande salutari: l’elevato contenuto di zuccheri, che non sono solo quelli normalmente presenti nella frutta, contribuisce all’aumento repentino della glicemia, per questo zuccheri come fruttosio e glucosio verranno in parte immagazzinati sotto forma di glicogeno e in parte verranno accumulati nel tessuto adiposo, condizione che nel tempo porterà ad un aumento del peso corporeo.
Inoltre, non devono assolutamente essere consumati da bambini al di sotto di un anno e devono essere consumati parsimoniosamente dai bimbi più grandi: gli zuccheri e gli acidi che si trovano all’interno dei succhi, col tempo portano carie ed erosione dentale e danni alle gengive.
E se proprio non potete rinunciare al succo di frutta, utilizzate estrattori per succhi di frutta: tramite questa macchina è possibile mantenere tutte le proprietà della frutta, compresi gli enzimi grazie al meccanismo di estrazione che avviene per schiacciamento e non per centrifugazione del frutto.
 
Oltre alle proprietà nutrizionali del succo di frutta confezionato, è bene valutare anche la sicurezza alimentare del prodotto.
Secondo il D.P.R. n. 719 del 19 maggio 1958 “sono considerate bibite analcooliche le bibite gassate e non gassate confezionate in bottiglie od altri recipienti a chiusura ermetica, preparate con acqua potabile odacqua minerale naturale contenenti una o più delle seguenti sostanze: succo di frutta; infusi, estratti di frutta o di parti di piante commestibili o amaricanti o aromatizzanti; essenze naturali; saccarosio; acido citrico, acido tartarico”, pertanto anche i soli succhi costituiti dal 100% di frutta devono sottostare a tale legge.
Inoltre, il D. Lgs. n. 20 del 19 febbraio 2014, in attuazione della Direttiva Comunitaria n. 12 del 2012, ci dà una definizione dettagliata di succo di frutta, ossia “prodotto fermentescibile ma non fermentato, ottenuto dalla parte commestibile di frutta sana e matura, fresca o conservata mediante refrigerazione o congelamento, appartenente ad una o più specie e avente il colore, l'aroma e il gusto caratteristici dei succhi di frutta da cui proviene. L'aroma, la polpa e le cellule ottenute mediante processi fisici adeguati dalle stesse specie di frutta possono essere restituiti al succo […]”.Tale decreto introduce alcune novità riguardo i succhi di frutta: il pomodoro entra a far parte dei possibili ingredienti utilizzabili nella produzione dei succhi di frutta.

Già da queste due leggi possiamo notare quanto sia complessa la legislazione intorno a questo alimento di ampissimo consumo, specialmente per i più piccoli. Ma quali sono i pericoli che si celano dietro a tale bevanda? Distinguendo tra pericoli microbiologici, chimici e fisici, possiamo tranquillamente affermare che la probabilità di incorrere in contaminazioni di carattere microbiologico sono molto scarse, dal momento che nelle fasi finali di produzione, subito prima del imbottigliamento o confezionamento, c’è una fase di trattamento termico (pastorizzazione ma più spesso sterilizzazione) che abbatte tale probabilità. Per ciò che concerne pericoli fisici o particellari, con le buone partiche di produzione messe in atto dagli stabilimenti di produzione, la probabilità di trovare qualcosa che non sia polpa di frutta nel nostro succo è divenuta davvero remota.
Non possiamo però escludere anche i pericoli di natura chimica, derivanti da tossine di origine biologica, come le aflatossine prodotte da alcuni funghi o la possibile tossicità derivante da eventuali additivi se pur autorizzati.
Dal momento che le materie prime utilizzate nella produzione dei succhi di frutta non sono tendenzialmente freschissime, spesso sono anche scarti, vi possono attecchire muffe di vario genere. Ma per eliminarle si esegue la sterilizzazione ad alte temperature. Tali trattamenti termici non riescono però ad eliminare le micotossine, che oltre certi valori possono diventare tossiche od addirittura cancerogene.
Patulina
Nelle mele, ad esempio, possiamo trovare la patulina, una micotossina solubile in acqua prodotta da una muffa appartenente alla famiglia delle Penicilline. È stato visto che questa sostanza tossica, in generale, è tanto più abbondante quanto maggiore è l’area colpita da queste muffe, ma la parte sana delle mele colpite da questa muffa può essere tranquillamente consumata una volta che la parte ammuffita è stata rimossa totalmente.
Succo di frutta?

Maria Teresa Lisanti 
Master in “Alimentazione e nutrizione umana” 19^ ed

Antonio Ventura 
Master in “Sicurezza, certificazione e comunicazione alimentare” 8^ ed

giovedì 25 gennaio 2018

Latte: proprietà e consumi




Che il carrello della spesa degli italiani si stia modificando in termini di nuove tendenze e maggiore attenzione alla composizione degli ingredienti non è una novità, perciò non ci stupiremo se stiamo abbandonando anche le tradizioni più radicate come la colazione mattutina, che una volta vedeva il latte come componente insostituibile. Il latte presente in commercio è in realtà un prodotto trasformato perché ha subito trattamenti tecnologici volti ad eliminare la carica batterica patogena e a ridurre quella saprofita in modo da allungare anche la shelf-life del prodotto. Essenzialmente questi sono trattamenti sia termici di pastorizzazione (71,5˚C per 15”) o sterilizzazione (135˚C per oltre 1”) che meccanici come la battocentrifugazione e eventualmente la microfiltrazione.

Sullo scaffale quindi troveremo:

  • latte pastorizzato con una shelf-life di 4 giorni refrigerato;
  • latte pastorizzato fresco se il trattamento termico è effettuato entro 48 ore dalla mungitura con una shelf-life di 6 giorni refrigerato;
  • latte pastorizzato fresco alta qualità che oltre a conservare le caratteristiche del latte fresco, risponde a specifici requisiti igienico sanitari e compositivi. Il latte crudo dal quale deriva deve essere prodotto in allevamenti autorizzati a tale produzione che sono sottoposti a severi controlli. La shelf-life è di 6 giorni a temperatura di refrigerazione;
  • latte pastorizzato microfiltrato che è ottenuto con un particolare procedimento di scrematura, battocentrifugazione, microfiltrazione e pastorizzazione con una shelf-life di 10 giorni a temperatura di refrigerazione;
  • latte pastorizzato a temperatura elevata (80-135˚C per 1”) con extended shelf-life (ESL) di 25-30 refrigerato;
  • latte UHT se sterilizzato in flusso continuo con una shelf-life di 120 giorni a temperatura ambiente.
In base al tenore in grasso poi, il latte viene distinto in scremato, parzialmente scremato e intero.
Da qualche anno inoltre il mercato propone nuovi prodotti, i cosìddetti “latti speciali”, in cui vengono aggiunti elementi nutritivi, quali vitamine, minerali o acidi grassi, che dovrebbero conferire proprietà funzionali aggiuntive. Un esempio sono gli omega 3, vitamina D, fibre, etc..
Secondo quanto riportato nell’ultimo report di Ismea, però negli ultimi cinque anni (2012-2016) nel carrello della spesa delle famiglie italiane è entrato il 7% in meno di latte alimentare. Il calo ha riguardato in misura preponderante il latte fresco (-15%) e meno quello a lunga conservazione (-3,2% in quantità).

In controtendenza a ciò si sono registrati gli acquisti di latte biologico e ad alta digeribilità, vale a dire senza lattosio (+47 %).
Da gennaio 2017, è entrato in vigore, in via sperimentale per due anni, un nuovo decreto nazionale che obbliga ad indicare su tutte le etichette di latte e derivati prodotti in Italia l’origine della materia prima e il luogo di trasformazione. Questo in qualche modo ha influenzato il comportamento dei consumatori per cui a sei mesi dall’entrata in vigore del decreto si è verificato che tutte le private label della GDO usano materia prima 100% italiana. È bene sapere che i prodotti 100% italiani, compreso il latte, costano di più perché il prezzo della materia prima nazionale è più alto, per questo incide sul prodotto finale. 
A consumare meno latte, recita Ismea, sono soprattutto le famiglie il cui responsabile d’acquisto ha un’età sotto i 35 anni, quindi più giovane e più incline ai nuovi stili di vita e a sperimentare percorsi alimentari alternativi.
Tra le famiglie italiane si è diffuso ad esempio, il consumo di bevande alternative a base vegetale, tra le quali, soprattutto quelle a base di soia, hanno fatto registrare un aumento degli acquisti nel quinquennio considerato del 108%. Per un acquisto più consapevole teniamo conto che la denominazione “latte” di soia, di riso, etc.. con la quale vengono vendute oggi non sarà più ammissibile secondo la recente sentenza della corte di Cassazione in quanto per latte l’Unione Europea intende esclusivamente "il prodotto della secrezione mammaria normale …(omissis)". Fanno eccezione solo alcuni prodotti dove nella lingua nazionale il termine "latte" associato ad un estratto vegetale viene legittimamente riconosciuto: in Italia il "latte di mandorle" ed il "latte di cocco". Il primo è una bevanda tipica della Puglia e Sicilia, mentre il “latte di cocco” si estrae dalla noce di cocco e non va confusa con l’acqua di cocco che si trova all’interno del frutto. 
Parliamo tuttavia della composizione e dei benefici del latte vero e proprio, che non sono affatto pochi.
Il latte contiene nutrienti che si presentano in sospensione colloidale (micelle caseiniche), in emulsione (grassi e vitamine liposolubili), in soluzione (sieroproteine, lattosio, sali minerali e vitamine idrosolubili).
I nutrienti del latte sono: acqua, grassi (trigliceridi, fosfolipidi, colesterolo, acidi grassi liberi), proteine (rappresentate da caseine del tipo alfa, beta, gamma e cappa, da sieroproteine quali lattoglobuline, lattoalbumine, immunoglobuline G, lattoferrina, albumina, enzimi) e sostanze azotate non proteiche (urea, ammoniaca, creatina, creatinina, aminoacidi liberi, nucleotidi ecc), glicidi (lattosio), sali minerali (calcio, fosforo, magnesio, citrati ecc) e vitamine (rappresentate da vitamine idrosolubili del gruppo B quali B1o tiamina, B2 o riboflavina, B3 o niacina, B5 o acido pantotenico, B6 o piridossina, vitamina B7 o biotina, vitamina B9 o acido folico, vitamina B12 o cobalamina, vitamina C, e da vitamine liposolubili quali vitamina A o retinolo ed equivalenti, vitamina D o calciferolo ed equivalenti, vitamina E o tocoferolo, vitamina K).
I grassi ricoprono numerose funzioni tra cui: produzione di energia attraverso la beta ossidazione degli acidi grassi, trasporto di vitamine liposolubili, ruolo strutturale in quanto fosfolipidi e colesterolo sono costituenti delle membrane cellulari, sintesi da parte del colesterolo di vitamina D e di ormoni steroidei quali testosterone, progesterone, estradiolo e cortisolo. 

Le proteine del latte quali caseine, lattoglobuline e lattoalbumine sono ad elevato valore biologico in quanto fonti di aminoacidi essenziali (aminoacidi ramificati quali isoleucina, leucina e valina, aromatici quali fenilalanina, tirosina e triptofano, basici quali istidina e lisina, neutri quali treonina, solforati quali cisteina e metionina) non sintetizzabili dall’organismo umano e quindi necessariamente introdotti attraverso gli alimenti. Le caseine contengono prolina, aminoacidi fosforilati, arginina, glutammina, fenilalanina; le sieroproteine contengono aminoacidi solforati, le lattoalbumine contengono anche triptofano; gli aminoacidi sono utilizzati per la sintesi proteica, quindi per la crescita, il mantenimento e la ricostruzione delle strutture cellulari. Altre proteine presenti nel latte sono: le immunoglobuline G importanti per la funzione immunitaria, la lattoferrina che trasporta il ferro ed ha un’attività antimicrobica; l’albumina che mantiene la pressione oncotica, che produce il riassorbimento nel circolo sanguigno di elettroliti, acqua e sostanze del catabolismo tissutale, e trasporta acidi grassi, bilirubina e ormoni.
Il lattosio è uno zucchero, un disaccaride costituito dal glucosio e dal galattosio, che favorisce l’assorbimento del calcio, induce lo sviluppo della microflora lattica, permette la sintesi di vitamine del gruppo B da parte della flora intestinale; il galattosio è un costituente di mucopolisaccaridi, cerebrosidi e galattolipidi del sistema nervoso.
I sali minerali come calcio, fosforo, magnesio e citrati sono associati alle micelle caseiniche.
Il calcio è importante per la formazione e il mantenimento delle ossa, per il processo coagulativo e per la conduzione degli impulsi nervosi. Il quantitativo di fosforo è inferiore a quello del calcio perché in questo modo viene favorito l’assorbimento di calcio. Il magnesio è importante per l’attivazione enzimatica e per la sintesi proteica. 

Le vitamine liposolubili sono associate ai grassi e sono importanti per la vista, per le ossa e per la pelle (vitamina A), per il metabolismo del calcio e del fosforo (vitamina D), per l’attività antiossidante (vitamina E), per la coagulazione del sangue (vitamina K).
Le vitamine idrosolubili si trovano in soluzione nel siero e sono importanti per l’attività antiossidante (vitamina C), il metabolismo dei glucidi (vitamina B1, B3, B5), dei lipidi e protidi (vitamina B3, B5), degli aminoacidi (vitamina B6), dell’alcol etilico (vitamina B1), per le reazioni di ossidoriduzione (vitamina B2 e B3), per il mantenimento delle mucose (vitamina B2), per la sintesi del colesterolo e degli ormoni steroidei (vitamina B5), per la sintesi dei glucidi, dei grassi e degli aminoacidi (vitamina B7), per la sintesi degli acidi nucleici (vitamina B9, B12), per la replicazione dei globuli rossi (vitamina B9, B12) e bianchi (vitamina B9).
E’ facile notare, quindi, come il latte sia ricco di proprietà e nutrienti fortemente utili all’organismo umano.

Antonella Triggiani
Master in “Alimentazione e nutrizione umana” 19^ ed

Lucrezia Carone
Master in “Sicurezza, certificazione e comunicazione alimentare” 8^ ed

venerdì 19 gennaio 2018

Tutto ciò che c’è da sapere sulle uova


L’uovo è un alimento molto nutriente costituito essenzialmente da sostanze di riserva, ossia quelle del tuorlo e quelle dell’albume, racchiuse in una membrana testacea e in un guscio calcareo. Ma descriviamolo più nel dettaglio.

Il guscio è una struttura mineralizzata che conferisce all’uovo la sua forma caratteristica ma, soprattutto, funge da sistema difensivo. Presenta dei piccolissimi pori che assicurano scambi gassosi tra la parte esterna dell’uovo e quella interna. Il guscio può essere bianco o colorato, in base alle caratteristiche della razza produttrice, per cui tale caratteristica non è legata all’alimentazione dell’animale o alla qualità organolettica dell’uovo stesso. Abbiamo poi la membrana testacea, formata da due strati; tra di essi, al polo ottuso, si trova la camera d’aria, che non esiste nell’uovo appena deposto ma viene a formarsi in seguito, aumentando di volume con l’invecchiamento dell’uovo (per questo la camera d’aria, come vedremo in seguito, è utile per valutare la freschezza dell’uovo). La membrana testacea avvolge l’albume, che costituisce circa il 60% dell’uovo intero: contiene più dell’80% di acqua, 10% circa di proteine e poi piccole quantità di zuccheri e sali minerali. L’albume contiene anche diverse sostanze ad azione battericida e batteriostatica, le quali ritardano la proliferazione batterica impedendo ai germi di penetrare e raggiungere il tuorlo; esempi di queste sostanze sono il lisozima e l’avidina. Tale azione è perpetrata anche dal pH alcalino. L’albume circonda a sua volta il tuorlo, composto principalmente da acqua e lipidi e in minima parte anche da proteine. Il tuorlo ha una colorazione che può andare dal giallo pallido all’arancio intenso; in questo caso, il colore dipende dall’alimentazione delle galline ovaiole. 
L'uovo è dunque un alimento ricco di nutrienti. È una eccezionale fonte sia di proteine che di grassi, ma ancor prima di esser così definito è una cellula germinale costituita da guscio, tuorlo ed albume. Sono numerose le qualità di uova utilizzate in cucina, da quelle di gallina che sono le più comuni, sino a quelle più rare e meno conosciute di anatra, quaglia, oca e struzzo.
A livello nutrizionale è bene distinguere tra albume e tuorlo. Spesso si fa confusione. Il tuorlo, cioè la “parte giallo o rossa” dell'uovo è la parte più ricca di grassi e ne contiene circa la metà delle proteine presenti. È una preziosa fonte di vitamina A, B (vitamine B6 e B12), E e D e di minerali quali Calcio, Fosforo, Ferro, Sodio e Potassio. Come mai questo “nucleo” galleggiante nell'albume è cosi nutritivo? Perché ancor prima di essere prezioso nutrimento per l'essere umano, è nutrimento necessario per la crescita dell'embrione.
L'albume al contrario, ossia la “parte bianca” dell'uovo, come accennato è caratterizzata al 90% d'acqua, il resto è costituito da proteine di alto valore biologico, minerali quali magnesio, sodio e potassio e vitamine del gruppo B. Non contiene grassi a differenza del tuorlo. 
 
Qualsiasi qualità di uova si decida di consumare nel proprio pasto, permette comunque di assumere tante proteine di grande qualità biologica, un po’ di grassi, vitamine e minerali. Inoltre un altro punto su cui focalizzare l'attenzione è il famoso “colesterolo”. Recenti studi hanno evidenziato che le uova non sono responsabili dell'aumento del tasso di colesterolo nel sangue, attribuibile fondamentalmente a predisposizione genetica e patologie in corso quali disfunzioni tiroidee ed affezioni renali. Difatti l'uovo presenta colesterolo nel “tuorlo”, circa 185 mg, ma si tratta di una concentrazione accettabilissima in considerazione del fatto che la dose di allarme per l'uomo è fissata attorno ai 300 milligrammi al giorno. Dunque eliminare le uova da una dieta anti colesterolo non trova un fondamento scientifico.
Un uovo medio pesa circa 50-70 grammi; più precisamente, esiste una classificazione in base alla taglia: XL, cioè grandissime, pesano più di 73 grammi; L, cioè grandi, hanno un peso compreso tra i 63 e i 73 grammi; M o medie, da 53 a 63 grammi; S, piccole, con un peso inferiore ai 53 grammi. Questa classificazione vale solo per le uova “destinate al consumo umano”, dette uova di categoria A: queste uova vengono definite fresche e sono appunto quelle che possono essere consumate tal quali dal consumatore. Devono avere caratteristiche ben precise: ampiezza della camera d’aria di almeno 6 millimetri, l’albume deve essere chiaro, limpido e gelatinoso, il guscio deve presentarsi normale, intatto, pulito, e il tuorlo, se osservato mediante speratura, deve apparire come un’ombratura e senza un contorno apparente, esente da qualsiasi corpo estraneo. Alle uova di questa categoria può essere aggiunta la dicitura “extra” se presentano particolari caratteristiche di freschezza. Le uova di categoria A possono essere commercializzate entro 3 settimane dalla deposizione. Abbiamo poi le uova di categoria B che sono quelle destinate all’industria alimentare. 
 
 
Molto spesso tuttavia parte delle qualità delle uova si perdono all'acquisto. E' molto importante saper scegliere la tipologia di uova controllando dunque sulle confezioni alcune preziose informazioni.
Ricordiamo che più volte è stato evidenziato che l'uovo ancor prima di essere un prodotto consumato dall'uomo è una cellula gametica che la gallina produce non certo per sfamare gli umani, ma per far nascere un pulcino. Con tale affermazione non si vuol urtare la sensibilità, ma si vuol spostare l'attenzione su una questione importante. Galline allevate in ambienti stressanti, in condizioni non ottimali, produrranno “cellule gametiche” di scarso valore nutrizionale.
Importante è dunque la scelta delle uova osservando sulle confezioni alcuni codici che indicano le condizioni di crescita ed allevamento delle galline.
Una ulteriore classificazione delle uova è quella che tiene conto difatti del tipo di allevamento dal quale sono state ottenute:
  • abbiamo così le uova da allevamento in gabbia o batteria, identificate con il numero 3;
  • uova da allevamento a terra, indicate con il numero 2;
  • uova da allevamento all’aperto, numero 1;
  • uova da allevamento biologico, identificate con lo 0.
Questi numeri sono stampigliati sul codice impresso sul guscio delle singole uova. Le informazioni che seguono a questo numero sono il paese di origine (indicato con la sigla del paese), il comune e la provincia di allevamento, allevamento di deposizione. 
 
Salmonella
Anche l’uovo, come tutti gli alimenti, presenta dei fattori di rischio: il principale è senz’altro la Salmonella. La normativa vigente impone l’assenza di Salmonella in 25 grammi di prodotto. Salmonella può provocare esclusivamente una patologia intestinale senza febbre, che si risolve in una settimana, oppure la febbre tifoide, che può portare anche alla morte. La contaminazione dell’uovo avviene quasi principalmente nell’ovario della gallina, ma può avvenire anche in uova molto vecchie. Si attuano azioni preventive in allevamento, come le vaccinazioni o la somministrazione di batteri in animali giovani che prevengano la colonizzazione di Salmonella, ma per il consumatore è importante intervenire mantenendo la catena del freddo, acidificando bene gli alimenti preparati in casa e da consumare crudi come la maionese, cuocere bene i piatti a base di uova. Salmonella non è però l’unico rischio: possono avvenire anche contaminazione di natura chimica, essenzialmente sostanze ad azione farmacologica impiegate per trattare patologie nelle galline ovaiole. In questi casi è fondamentale rispettare i tempi di sospensione dei trattamenti, altrimenti i farmaci possono ritrovarsi nelle uova e costituire un pericolo per la salute del consumatore. E’ il caso del recentissimo Fipronil: risalgono al 30 agosto azioni di ritiro e richiamo di alcuni lotti di uova da parte del Servizio Veterinario delle Marche per via di valori di Fipronil nelle uova superiori rispetto ai limiti vigenti. Si segnala tuttavia l’opinione dell’Istituto tedesco di valutazione BfR No. 016/2017, del 30 luglio 2017, nel quale sono state prese in considerazione uova contaminate da Fipronil in quantità nettamente superiore a quelle dei lotti per i quali sono state avviate le procedure di ritiro e richiamo. In base a questo studio, solo gli infanti costituiscono una classe a rischio, con un consumo di due uova al giorno.
Tale consumo preso come riferimento nello studio è un enorme eccesso rispetto ai consumi effettivi di uova della popolazione italiana, soprattutto per i bambini.
Da qui si evince che allarmarsi e demonizzare le uova non serve: se si consuma la giusta quantità di uova a settimana, non si va incontro a particolari rischi rispetto ad altri alimenti.

Portacci Valeria
Master in “Sicurezza, certificazione e comunicazione alimentare” 8^ ed

Mangiatordi Gaetano
Master in “Alimentazione e nutrizione umana” 19^ ed

giovedì 18 gennaio 2018

Il vino: nunc est bibendum?

 
Il vino è considerato ad oggi un alimento che fa parte integrante della alimentazione quotidiana e della dieta mediterranea, ma è anche vissuto come un momento di convivialità e di condivisione culturale.
In Italia infatti, la cultura del vino ha profonde radici tant’è che ovunque nel nostro Paese sono presenti vigne dalle quali, in base alla qualità, alla composizione dell’uva e ai processi di lavorazione, viene prodotto vino che acquisisce proprietà fisiche, chimiche e organolettiche (colore, profumo, gusto e retrogusto) che portano alla produzione di moltissime varietà di prodotto.
Il vino è da sempre considerato tra gli alimenti più salutari. 
 
 
Negli ultimi anni, l’OMS, a seguito dell’aumento dei decessi per disfunzioni cardiocircolatorie, aveva incentivato una ricerca ad ampio raggio sui possibili fattori implicati in queste patologie come ad esempio il consumo di grassi associato al consumo di vino rosso. Indagini statistico-epidemiologiche avevano dimostrato una ridotta incidenza di malattie cardiovascolari in alcune regioni della Francia meridionale, nonostante l’elevato consumo di grassi aterogeni; Si è pensato dunque che l’abituale consumo di vino da parte dei Francesi rappresentasse un fattore protettivo contro l’atero- arteriosclerosi e le patologie cardio-circolatorie.

Tale fattore protettivo è dovuto alla presenza di alcune sostanze antiossidanti, i polifenoli, che il vino rosso contiene 10 volte in più rispetto al vino bianco.

Ma il vino può essere considerato davvero un alimento? Fa davvero bene alla nostra salute?

Per rispondere a queste domande, iniziamo ad analizzarlo dal punto di vista nutrizionale: il vino è considerato un “alimento energetico complementare”, energetico in quanto contiene sostanze organiche in grado di fornire calorie, complementare in quanto non è in grado di coprire completamente le esigenze vitali del nostro organismo. È costituito perlopiù da acqua (circa l’85% del totale), ed è arricchito da altre sostanze quali: alcol etilico, che viene prodotto dalla fermentazione alcolica di alcuni zuccheri semplici grazie all’azione di lieviti ivi presenti; glicerolo, mannitolo e sorbitolo, prodotti secondari della fermentazione che conferiscono sapore dolciastro al vino; gomme e pectine che derivano dalla polpa degli acini d’uva, conferendo un carattere astringente a seconda della quantità; acidi; zuccheri; sostanze azotate, che servono a garantire una fermentazione adeguata e la crescita dei lieviti; vitamine; polifenoli, sostanze antiossidanti che si distinguono in flavonoidi e non flavonoidi a cui in particolare va attribuito il ruolo determinante nella difesa delle arterie.
Tra tutti questi componenti, è evidente che l’etanolo determina nel bene e nel male il valore alimentare del vino. 
 
 
L’apporto energetico delle bevande alcoliche deve essere tenuto presente nel bilancio calorico della dieta: 30–35 g di etanolo, contenuti in 1/3 di litro di vino corrispondente a tre bicchieri, quantità ben tollerata in un adulto sano, apportano 210–250 kcal. Poiché l’ossidazione dell’etanolo non coinvolge quella degli acidi grassi, ciò che avverrà a seguito di un consumo costante di etanolo superiore ai valori ottimali è sicuramente il verificarsi dell’aumento dei grassi di deposito, con conseguente sovrappeso e obesità. Tuttavia, se si assume una quantità giornaliera maggiore rispetto a quella consigliata di etanolo, nel tempo si avrà una sovrasaturazione dei sistemi enzimatici coinvolti nel metabolismo, il fegato perde la capacità di regolare la glicemia, accumula lipidi e diventa steatosico. In ultimo, si verificheranno danni irreversibili e letali come la cirrosi.

Il glicerolo presente nel vino a concentrazioni apprezzabili, ha più importanza organolettica che nutrizionale: l’apporto energetico del glicerolo risulta quasi trascurabile, se si considera sia la concentrazione quasi 10 volte inferiore a quella dell’etanolo, sia la resa energetica pari a quella dei carboidrati. Infatti il glicerolo, che in realtà è un triolo e quindi più simile agli zuccheri che agli alcoli, ha un destino metabolico fortemente connesso a quello dei glicidi. Il glicerolo, come altri intermedi del metabolismo glicidico, può essere utilizzato per sintetizzare glucosio (gluconeogenesi).

Ai polifenoli sono state attribuite invece diverse funzioni: sono antiaggreganti, antinfiammatori, hanno attività fibrinolitica e antitrombotica; hanno una nota attività antiossidante, inibiscono la produzione di endotelina-1 e agiscono a livello dei lipidi plasmatici.

Ma come si ottiene il vino? Dal punto di vista della sicurezza alimentare può essere considerato un prodotto sicuro per il consumatore?

Il vino è una bevanda ottenuta dalla fermentazione alcolica dell’uva o del mosto. Tale fermentazione è operata dai lieviti presenti sulla buccia dell’acino che, tramite una serie di reazioni chimiche, trasformano il succo contenuto nell’acino da liquido zuccherino (fruttosio) a liquido alcolico (alcool etilico). Durante il processo di vinificazione nello specifico, i microrganismi responsabili della fermentazione alcolica, sono per la maggior parte dei casi Saccaromiceti (lieviti anaerobi) ma in alcuni casi altre specie (per lo più aerobie che producono acido acetico) possono competere sul substrato zuccherino, causando una alterazione del prodotto vinicolo vanificando l’intero ciclo produttivo. Questa contaminazione, che possiamo definire quindi indesiderata, avviene non solo durante la fermentazione ma anche in altre fasi di lavorazione. Le aziende vinicole quindi corrono ai ripari utilizzando un conservante chiamato anidride solforosa (SO2) che viene aggiunta al vino di solito sotto forma gassosa o di metabisolfito di potassio con la funzione di disinfettante e stabilizzante. Con la sua azione antiossidante, antisettica e conservante la SO2, utilizzata in enologia a partire dal mosto fino all’imbottigliamento, inibisce la crescita di batteri lattici e acetici preservando in tal modo la qualità e la stabilità del vino. 
 
 
 
Ma come agiscono i solfiti nel vino? Si tratta di sostanze naturalmente presenti in esso o di additivi? Quanti solfiti sono presenti nel vino che beviamo? Ma soprattutto fanno male?
 
Cerchiamo quindi di fare chiarezza su una questione così controversa. Partiamo dal concetto che l’anidride solforosa può essere considerata un sottoprodotto del vino perché, pur non essendo presente allo stato naturale nell’uva, la fermentazione operata da alcuni lieviti, situati sulla buccia, può generare fino a 40 mg/l di solfiti. Tuttavia durante varie fasi del processo di vinificazione alcuni di essi (in particolare il bisolfito di sodio) vengono aggiunti con diversi scopi tra cui quello di limitare l’ossidazione del vino e renderne più limpido il mosto. Nel momento in cui interagisce con il substrato la SO2 si dissolve e alla fine del processo chimico una parte di essa si combinerà con alcuni componenti del vino o del mosto mentre una restante parte resterà libera e sarà responsabile delle azioni antisettiche e antiossidanti sopracitate. Al contempo ciò che deve interessare maggiormente il consumatore è l’accertata tossicità dei solfiti che sono in grado di causare irritazioni della mucosa gastrica, emicranie, nausee, vomito e che in soggetti predisposti, essendo degli allergeni, sono anche capaci di scatenare crisi allergiche. Per tutti questi motivi la loro presenza negli alimenti per legge deve essere indicata in etichetta secondo il Reg. UE 1169/2011 e deve essere al di sotto di certi limiti che sono stati fissati dal Reg. CE 606/2009. Tali limiti si differenziano a seconda della tipologia di vino: nei vini rossi la presenza di sostanze polifenoliche favorisce la loro conservazione e fissa il limite di solfiti a 150 mg/l rispetto ai 200 mg/l dei vini bianchi che sono esposti invece ad un rapido deterioramento; per i vini dolci il limite si eleva anche fino a 250 mg/l poiché hanno la tendenza a continuare a fermentare (non trasformano in alcol tutti gli zuccheri) necessitando quindi di una maggiore quantità di solfiti. In etichetta è quindi obbligatoria la dicitura “contiene solfiti” per tutti quei vini che contengono più di 10 mg di solfiti per litro ma al contempo il produttore non è obbligato a porre il contenuto totale di solfiti presenti nel prodotto non rendendo in questo modo il consumatore completamente consapevole di ciò che sta assumendo.

Francesca Filannino
Master in “Sicurezza, certificazione e comunicazione alimentare” 8^ ed

Maria Teresa Lisanti
Master in “Alimentazione e nutrizione umana” 19^ ed

mercoledì 17 gennaio 2018

Ketchup e Maionese. Le salse più diffuse ed i rischi per la salute

 
Le salse più diffuse nell’alimentazione odierna sono ketchup e maionese, usate ormai in maniera spregiudicata sia da bambini e giovani che dagli adulti, anche a causa della larga diffusione di fast food e di un’alimentazione “americanizzata” che ha preso piede negli ultimi anni. 
 
Il ketchup è una salsa costituita da passata di pomodoro, dolcificante come ad esempio il nettare di agave, cipolla, spezie varie, aceto di vino bianco e sale. Le proporzioni dei vari ingredienti variano in base alla ricetta. In genere la passata di pomodoro utilizzata è quella sottovuoto in modo da mantenere le caratteristiche organolettiche invariate. Il contenitore della passata è aperto e sottoposto all’azione di una pompa d’aria che la rende fluida. Questa successivamente, affluisce in una vasca di contenimento e mediante un complesso sistema di tubi viene trasferita in un bollitore. In esso viene miscelata, per evitare che aderisca alle pareti e vengono introdotti gli altri ingredienti. La temperatura del bollitore e il tempo di cottura e miscelazione degli ingredienti variano in base alla ricetta aziendale. L’aceto è fondamentale per assicurare il ph acido e quindi per impedire la proliferazione batterica e garantire la conservazione del prodotto a lungo termine. Infine la miscela viene raffreddata e confezionata. Il ketchup, secondo forse solo alla maionese nel suo utilizzo, è ampiamente apprezzato grazie al suo spiccato sapore capace di sposarsi bene con molti alimenti, e poiché si tratta di un alimento poco calorico si potrebbe cadere in errore e credere nella sua innocuità.

Partiamo esaminando quello che è il suo principale ingrediente: il pomodoro. In realtà quello che noi mangiamo aggiungendo questa salsa sui nostri piatti è un concentrato o semi concentrato di pomodoro la cui provenienza è del tutto sconosciuta, in quanto, ad oggi la legge ancora non impone di specificarne in etichetta l’origine. E, come è già accaduto in passato ci sono stati casi di concentrato di pomodoro importato dalla Cina contenente sostanze tossiche tra l’altro vietate in Europa, cosa ci fa pensare che la stessa cosa non accada anche ora?!
Inoltre come nella maggior parte dei prodotti industriali nel ketchup si possono ritrovare edulcoranti, addensanti, esaltatori di sapidità e conservanti il cui consumo continuo non sempre giova al nostro organismo. Tra i conservanti possiamo infatti osservare la presenza del benzoato di sodio (E211), un conservante aggiunto per inibire lo sviluppo di muffe all’interno del prodotto e capace di sviluppare reazioni allergiche e tossicità in caso di assunzioni eccessive.
Se davvero non si vuole rinunciare all’allettante sapore apportato da questa salsa, si potrebbe optare per la scelta di un prodotto di migliore qualità ottenuto a partire almeno da veri e propri pomodori e non da concentrati. 
 
 
Per quanto riguarda la maionese invece, questa ha un processo di produzione molto simile a quello precedentemente descritto per il ketchup, ma cambiano soltanto gli ingredienti: olio, uova, aceto di vino, sale, zucchero, succo di limone e aromi in genere. Questi vengono miscelati ma non sottoposti a cottura. Solo le uova sono pastorizzate e quindi viene eliminato il pericolo della Salmonella. Per mantenere l’acidificazione del prodotto, in questo caso, viene utilizzato non solo l’aceto ma anche il succo di limone. 
 
La maionese, nonostante sia un prodotto particolarmente calorico, potrebbe essere considerata un ottimo alimento dal punto di vista qualitativo sia per la presenza di acidi grassi prevalentemente polinsaturi, sia per il suo contenuto proteico ad alto valore biologico; ma è necessario distinguere tra maionese artigianale e maionese industriale.
Come può darci conferma chiunque si sia ma cimentato nella preparazione di una maionese “casereccia”, confrontando i pochi ingredienti necessari per la preparazione di questa salsa con quelli contenuti nel prodotto commerciale, è possibile osservare un aumento del doppio, se non addirittura del triplo degli ingredienti in quest’ultimo tipo di prodotto.
Leggendo le varie etichette commerciali è infatti possibile osservare la presenza addizionale di zucchero, amido modificato, addensanti, antiossidanti, emulsionanti, correttori di acidità e l’uso di olii di scarsa qualità. Infatti gli olii più usati sono quello di girasole, che rappresenta il male minore, o gli olii vegetali come quello di cocco o di palma contenenti elevate quantità di grassi idrogenati, famosi per la loro capacità di aumentare i livelli di colesterolo LDL. Inoltre è importante sottolineare che le uova utilizzate sono quelle di categorie B, cioè uova declassate e per questo non vendute come tali direttamente al consumatore, ma destinate solo a processi industriali. Un vero smacco alla ricetta tradizionale!

Anna Putignano
Master in “Alimentazione e nutrizione umana” 19^ ed

Teresa Tagliatti
Master in “Sicurezza, certificazione e comunicazione alimentare” 8^ ed

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