Cosa c’è negli alimenti che consumiamo? Sofisticazioni e adulterazioni, fast food e take away, intolleranze e allergie, anoressia e obesità. Il modello di Dieta Mediterranea è stato messo a dura prova dalle trasformazioni, industriali e sociali, avvenute negli ultimi cinquant’anni in Italia, che hanno determinato radicali cambiamenti nelle abitudini al consumo alimentare.

giovedì 18 gennaio 2018

Il vino: nunc est bibendum?

 
Il vino è considerato ad oggi un alimento che fa parte integrante della alimentazione quotidiana e della dieta mediterranea, ma è anche vissuto come un momento di convivialità e di condivisione culturale.
In Italia infatti, la cultura del vino ha profonde radici tant’è che ovunque nel nostro Paese sono presenti vigne dalle quali, in base alla qualità, alla composizione dell’uva e ai processi di lavorazione, viene prodotto vino che acquisisce proprietà fisiche, chimiche e organolettiche (colore, profumo, gusto e retrogusto) che portano alla produzione di moltissime varietà di prodotto.
Il vino è da sempre considerato tra gli alimenti più salutari. 
 
 
Negli ultimi anni, l’OMS, a seguito dell’aumento dei decessi per disfunzioni cardiocircolatorie, aveva incentivato una ricerca ad ampio raggio sui possibili fattori implicati in queste patologie come ad esempio il consumo di grassi associato al consumo di vino rosso. Indagini statistico-epidemiologiche avevano dimostrato una ridotta incidenza di malattie cardiovascolari in alcune regioni della Francia meridionale, nonostante l’elevato consumo di grassi aterogeni; Si è pensato dunque che l’abituale consumo di vino da parte dei Francesi rappresentasse un fattore protettivo contro l’atero- arteriosclerosi e le patologie cardio-circolatorie.

Tale fattore protettivo è dovuto alla presenza di alcune sostanze antiossidanti, i polifenoli, che il vino rosso contiene 10 volte in più rispetto al vino bianco.

Ma il vino può essere considerato davvero un alimento? Fa davvero bene alla nostra salute?

Per rispondere a queste domande, iniziamo ad analizzarlo dal punto di vista nutrizionale: il vino è considerato un “alimento energetico complementare”, energetico in quanto contiene sostanze organiche in grado di fornire calorie, complementare in quanto non è in grado di coprire completamente le esigenze vitali del nostro organismo. È costituito perlopiù da acqua (circa l’85% del totale), ed è arricchito da altre sostanze quali: alcol etilico, che viene prodotto dalla fermentazione alcolica di alcuni zuccheri semplici grazie all’azione di lieviti ivi presenti; glicerolo, mannitolo e sorbitolo, prodotti secondari della fermentazione che conferiscono sapore dolciastro al vino; gomme e pectine che derivano dalla polpa degli acini d’uva, conferendo un carattere astringente a seconda della quantità; acidi; zuccheri; sostanze azotate, che servono a garantire una fermentazione adeguata e la crescita dei lieviti; vitamine; polifenoli, sostanze antiossidanti che si distinguono in flavonoidi e non flavonoidi a cui in particolare va attribuito il ruolo determinante nella difesa delle arterie.
Tra tutti questi componenti, è evidente che l’etanolo determina nel bene e nel male il valore alimentare del vino. 
 
 
L’apporto energetico delle bevande alcoliche deve essere tenuto presente nel bilancio calorico della dieta: 30–35 g di etanolo, contenuti in 1/3 di litro di vino corrispondente a tre bicchieri, quantità ben tollerata in un adulto sano, apportano 210–250 kcal. Poiché l’ossidazione dell’etanolo non coinvolge quella degli acidi grassi, ciò che avverrà a seguito di un consumo costante di etanolo superiore ai valori ottimali è sicuramente il verificarsi dell’aumento dei grassi di deposito, con conseguente sovrappeso e obesità. Tuttavia, se si assume una quantità giornaliera maggiore rispetto a quella consigliata di etanolo, nel tempo si avrà una sovrasaturazione dei sistemi enzimatici coinvolti nel metabolismo, il fegato perde la capacità di regolare la glicemia, accumula lipidi e diventa steatosico. In ultimo, si verificheranno danni irreversibili e letali come la cirrosi.

Il glicerolo presente nel vino a concentrazioni apprezzabili, ha più importanza organolettica che nutrizionale: l’apporto energetico del glicerolo risulta quasi trascurabile, se si considera sia la concentrazione quasi 10 volte inferiore a quella dell’etanolo, sia la resa energetica pari a quella dei carboidrati. Infatti il glicerolo, che in realtà è un triolo e quindi più simile agli zuccheri che agli alcoli, ha un destino metabolico fortemente connesso a quello dei glicidi. Il glicerolo, come altri intermedi del metabolismo glicidico, può essere utilizzato per sintetizzare glucosio (gluconeogenesi).

Ai polifenoli sono state attribuite invece diverse funzioni: sono antiaggreganti, antinfiammatori, hanno attività fibrinolitica e antitrombotica; hanno una nota attività antiossidante, inibiscono la produzione di endotelina-1 e agiscono a livello dei lipidi plasmatici.

Ma come si ottiene il vino? Dal punto di vista della sicurezza alimentare può essere considerato un prodotto sicuro per il consumatore?

Il vino è una bevanda ottenuta dalla fermentazione alcolica dell’uva o del mosto. Tale fermentazione è operata dai lieviti presenti sulla buccia dell’acino che, tramite una serie di reazioni chimiche, trasformano il succo contenuto nell’acino da liquido zuccherino (fruttosio) a liquido alcolico (alcool etilico). Durante il processo di vinificazione nello specifico, i microrganismi responsabili della fermentazione alcolica, sono per la maggior parte dei casi Saccaromiceti (lieviti anaerobi) ma in alcuni casi altre specie (per lo più aerobie che producono acido acetico) possono competere sul substrato zuccherino, causando una alterazione del prodotto vinicolo vanificando l’intero ciclo produttivo. Questa contaminazione, che possiamo definire quindi indesiderata, avviene non solo durante la fermentazione ma anche in altre fasi di lavorazione. Le aziende vinicole quindi corrono ai ripari utilizzando un conservante chiamato anidride solforosa (SO2) che viene aggiunta al vino di solito sotto forma gassosa o di metabisolfito di potassio con la funzione di disinfettante e stabilizzante. Con la sua azione antiossidante, antisettica e conservante la SO2, utilizzata in enologia a partire dal mosto fino all’imbottigliamento, inibisce la crescita di batteri lattici e acetici preservando in tal modo la qualità e la stabilità del vino. 
 
 
 
Ma come agiscono i solfiti nel vino? Si tratta di sostanze naturalmente presenti in esso o di additivi? Quanti solfiti sono presenti nel vino che beviamo? Ma soprattutto fanno male?
 
Cerchiamo quindi di fare chiarezza su una questione così controversa. Partiamo dal concetto che l’anidride solforosa può essere considerata un sottoprodotto del vino perché, pur non essendo presente allo stato naturale nell’uva, la fermentazione operata da alcuni lieviti, situati sulla buccia, può generare fino a 40 mg/l di solfiti. Tuttavia durante varie fasi del processo di vinificazione alcuni di essi (in particolare il bisolfito di sodio) vengono aggiunti con diversi scopi tra cui quello di limitare l’ossidazione del vino e renderne più limpido il mosto. Nel momento in cui interagisce con il substrato la SO2 si dissolve e alla fine del processo chimico una parte di essa si combinerà con alcuni componenti del vino o del mosto mentre una restante parte resterà libera e sarà responsabile delle azioni antisettiche e antiossidanti sopracitate. Al contempo ciò che deve interessare maggiormente il consumatore è l’accertata tossicità dei solfiti che sono in grado di causare irritazioni della mucosa gastrica, emicranie, nausee, vomito e che in soggetti predisposti, essendo degli allergeni, sono anche capaci di scatenare crisi allergiche. Per tutti questi motivi la loro presenza negli alimenti per legge deve essere indicata in etichetta secondo il Reg. UE 1169/2011 e deve essere al di sotto di certi limiti che sono stati fissati dal Reg. CE 606/2009. Tali limiti si differenziano a seconda della tipologia di vino: nei vini rossi la presenza di sostanze polifenoliche favorisce la loro conservazione e fissa il limite di solfiti a 150 mg/l rispetto ai 200 mg/l dei vini bianchi che sono esposti invece ad un rapido deterioramento; per i vini dolci il limite si eleva anche fino a 250 mg/l poiché hanno la tendenza a continuare a fermentare (non trasformano in alcol tutti gli zuccheri) necessitando quindi di una maggiore quantità di solfiti. In etichetta è quindi obbligatoria la dicitura “contiene solfiti” per tutti quei vini che contengono più di 10 mg di solfiti per litro ma al contempo il produttore non è obbligato a porre il contenuto totale di solfiti presenti nel prodotto non rendendo in questo modo il consumatore completamente consapevole di ciò che sta assumendo.

Francesca Filannino
Master in “Sicurezza, certificazione e comunicazione alimentare” 8^ ed

Maria Teresa Lisanti
Master in “Alimentazione e nutrizione umana” 19^ ed

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