Cosa c’è negli alimenti che consumiamo? Sofisticazioni e adulterazioni, fast food e take away, intolleranze e allergie, anoressia e obesità. Il modello di Dieta Mediterranea è stato messo a dura prova dalle trasformazioni, industriali e sociali, avvenute negli ultimi cinquant’anni in Italia, che hanno determinato radicali cambiamenti nelle abitudini al consumo alimentare.

lunedì 27 novembre 2017

Prodotti dolciari: cosa nasconde la lista degli ingredienti?


I prodotti dolciari confezionati, in particolar modo le merendine, sono così tanto demonizzati ma allo stesso tempo così amati e consumati. Il motivo è fondamentalmente lo stesso: gli ingredienti lasciano spesso perplessi ma sono proprio quelli a rendere tali prodotti soffici, gustosi, appetibili ed apprezzati. Basta leggere l’etichetta per venire a conoscenza dell’elenco degli ingredienti, riportati obbligatoriamente per legge secondo il Regolamento CE 1169/2011. Alcuni di questi ingredienti accomunano molti prodotti dolciari, sono abbastanza frequenti ed è facile leggerli in svariate etichette.  Per prima cosa, bisogna far attenzione alla componente grassa dei prodotti dolciari, soprattutto se di origine animale, avente una funzione particolare sulla salute umana. Per chiarezza, distinguiamo gli acidi grassi in: saturi, dotati di una consistenza solida e abbondanti soprattutto nel mondo animale, e insaturi che sono invece liquidi e abbondano nel mondo vegetale. Questi ultimi si suddividono ulteriormente in cis e trans, in base alle caratteristiche molecolari. I grassi saturi sono potenzialmente dannosi per la salute; allo stesso modo gli acidi grassi trans: un consumo eccessivo aumenta la probabilità di contrarre gravi patologie cardiovascolari. Un ingrediente spesso utilizzato nella preparazione di prodotti dolciari è la margarina, avente un contenuto elevato sia di acidi grassi saturi che di acidi grassi trans. Essa, infatti, è ottenuta utilizzando o grassi vegetali saturi naturalmente, come l'olio di cocco e di palma, oppure oli vegetali insaturi, che vengono però idrogenati così da renderli saturi o trans. Il processo di idrogenazione, una tecnica largamente impiegata per la produzione di margarina, permette di ottenere una consistenza migliore del prodotto e tempi di conservazione più lunghi. I vantaggi produttivi, tuttavia, sono a scapito del consumatore, poiché le elevate temperature e pressioni a cui sono sottoposti gli alimenti vanno ad alterare chimicamente gli acidi grassi. Si ottiene così un alimento decisamente dannoso per la salute di chi ne fa uso. L’organismo, infatti, utilizza gli acidi grassi trans della margarina come costituenti delle membrane cellulari; il risultato è una cellula indebolita e più suscettibile ad infezioni e all’attacco di batteri e virus. Inoltre, gli stessi grassi saturi sono responsabili dell’aumento del colesterolo cattivo e della contemporanea riduzione del colesterolo buono; in questo modo cresce il rischio di aterosclerosi e danni cardiovascolari. Secondo la normativa vigente, in particolare secondo il Regolamento CE 1169/2011, la quantità di acidi grassi saturi deve essere riportata obbligatoriamente nella dichiarazione nutrizionale di un alimento, mentre è facoltativo riportare la quantità di acidi grassi monoinsaturi e polinsaturi. Inoltre, riguardo all’elenco degli ingredienti, lo stesso regolamento impone che: gli oli e i grassi raffinati di origine vegetale possono essere raggruppati nell’elenco degli ingredienti sotto la designazione «oli/grassi vegetali», immediatamente seguita da un elenco di indicazioni dell’origine vegetale specifica e, eventualmente, anche dalla dicitura «in proporzione variabile»; l’espressione «totalmente o parzialmente idrogenato», a seconda dei casi, deve accompagnare l’indicazione di un olio/grasso idrogenato; gli oli e i grassi raffinati di origine animale sono designati come «olio/grasso o materia grassa» accompagnato dall’aggettivo «animale», oppure dall’indicazione dell’origine animale specifica; anche in questo caso, l’espressione «totalmente o parzialmente idrogenato», a seconda dei casi, deve accompagnare l’indicazione di un olio/grasso idrogenato. I prodotti dolciari, spesso, oltre ad essere ricchi in grassi, presentano un contenuto eccessivo di zuccheri. Questi determinano un intenso sapore dolce che ha la duplice funzione di rendere appetibile e gradevole un impasto privo di gusto e di mascherare l’utilizzo di ingredienti scadenti, ingannando il palato del consumatore. La maggior parte dei prodotti dolciari in commercio contiene zucchero bianco: estratto dalla barbabietola e sottoposto ad un intenso processo produttivo, esso arriva sulle nostre tavole come un alimento ipercalorico e privo di elementi nutritivi; vitamine, minerali ed enzimi vengono infatti completamente persi durante le varie fasi della produzione. Inoltre, svariati studi scientifici hanno rivelato che lo zucchero bianco è legato all’insorgenza di problematiche quali diabete, obesità e malattie cardiovascolari, già dalla prima infanzia. Ma lo zucchero bianco non è il solo a cui vengono imputati questi effetti. Gran parte dei consumatori, infatti, opta per prodotti dolciari a base di zucchero di canna grezzo, con l’illusione che non sia dannoso per la salute. In realtà, tra zucchero di canna grezzo e zucchero bianco non c’è alcuna differenza, in termini di valori nutrizionali.  
Per quanto riguarda, invece, i prodotti dolciari a base di frutta, è bene non lasciarsi ingannare da un contenuto vitaminico, in realtà, inesistente. Le elevate temperature a cui gli alimenti sono sottoposti causano una vera e propria denaturazione delle vitamine, instabili al calore. Quindi, essendo i prodotti dolciari quasi del tutto privi di fibre, minerali e vitamine, si configurano come alimenti ipercalorici e privi di nutrienti.  
Oltre a questo, va considerato che i prodotti dolciari contengono anche una buona dose di additivi alimentari. Gli additivi alimentari sono regolamentati a livello comunitario dal Regolamento CE 1333/2008, il quale definisce che per «additivo alimentare» s’intende «qualsiasi sostanza abitualmente non consumata come alimento in sé e non utilizzata come ingrediente caratteristico di alimenti, con o senza valore nutritivo, la cui aggiunta intenzionale ad alimenti per uno scopo tecnologico nella fabbricazione, nella trasformazione, nella preparazione, nel trattamento, nell’imballaggio, nel trasporto o nel magazzinaggio degli stessi, abbia o possa presumibilmente avere per effetto che la sostanza o i suoi sottoprodotti diventino, direttamente o indirettamente, componenti di tali alimenti». È corretto informare i consumatori, al fine della loro tutela, che gli additivi alimentari sono sostanze costantemente monitorate e studiate dall’EFSA, autorità europea per la sicurezza alimentare, la quale autorizza l’uso di un additivo solo se sono disponibili studi scientifici che garantiscono la sicurezza del consumatore e se tale additivo è considerato assolutamente necessario ai fini tecnologici. Per questo, il Regolamento CE 1331/2008 istituisce una procedura uniforme di autorizzazione per gli additivi, gli enzimi e gli aromi alimentari. Dunque solo gli additivi autorizzati possono essere utilizzati nella preparazione degli alimenti e questi, a tutela del consumatore, devono essere identificati in etichetta con il nome della loro categoria funzionale, seguita dal loro nome specifico o dal numero CE, un codice europeo, costituito dalla lettera E e da un numero progressivo. Gli additivi alimentari autorizzati figurano negli allegati II e III del Regolamento CE 1333/2008.  
In particolare, bisogna fare attenzione alla presenza di alcuni additivi presenti nei prodotti dolciari che, se assunti in quantità eccessive, possono rivelarsi dannosi per l’organismo. Il colorante E127, ad esempio, può provocare disturbi a carico della tiroide, a causa della presenza di iodio; l’E129, E132 ed E133 causano iperattività nei bambini, mentre E140, 141 e 142 possono risultare addirittura tossici. Altri additivi pericolosi sono l’E320, che può ridurre la vitamina D, l’E450 che sottrae calcio all’organismo e l’E905, che può causare malassorbimento di grassi e vitamine.
Per questo, per alcuni additivi, è fissata una dose accettabile giornaliera, cioè la quantità di additivo che può essere ingerita giornalmente, senza effetti sulla salute. Questo fa ben capire come il problema sia legato soprattutto alla quantità più che alla presenza della sostanza stessa, poiché, come per ogni cosa, “è la dose che fa il veleno”.


Serena De Palma
Master in “Sicurezza, certificazione e comunicazione alimentare” 8°ed

Laura Benedetta Sasso
Master in “Alimentazione e nutrizione umana” 19° ed


Un lievito per ogni ricetta


Quotidianamente, per la preparazione di impasti lievitati, come pane, pizze, focacce ma anche prodotti dolciari, si ricorre all’uso di agenti lievitanti. Come è noto, al momento dell’acquisto, sugli scaffali ci si imbatte in tipologie di lieviti molto diverse fra loro e per questo destinate ad utilizzi differenti. Spesso si sa bene che tipo di agente lievitante acquistare per uno specifico utilizzo; ma questa scelta non sempre è consapevole. Che differenze ci sono tra un panetto di lievito e una bustina di agente lievitante in polvere? Cosa contiene ciascuno di questi prodotti?
 Innanzitutto, esiste una netta distinzione tra lievito biologico e lievito chimico. La finalità è, in entrambi i casi, quella di consentire all’impasto un aumento di volume: questo avviene grazie alla liberazione di anidride carbonica che viene intrappolata nelle maglie create dal glutine. Il glutine è una proteina presente nel grano che, durante l'impastamento della farina con l'acqua, assume nello spazio una forma particolare, una rete che trattiene l’anidride carbonica e permette all’impasto di sollevarsi, quindi di lievitare. La differenza tra le due tipologie di lievito è data proprio dalla modalità con cui l’anidride carbonica viene prodotta.  Il lievito biologico è costituito da miliardi di cellule vive del lievito Saccharomyces cerevisiae, è anche noto come “lievito di birra” perché utilizzato fin dall’antichità per la produzione della birra, oltre che per la produzione del vino e per la panificazione. Si tratta di un organismo unicellulare appartenente al regno dei funghi che fermenta gli zuccheri presenti nell’impasto rilasciando anidride carbonica e alcol etilico; quest’ultimo evapora nella fase di cottura. Il lievito biologico è disponibile in più forme: panetti, scaglie, capsule o compresse. Per la sua produzione si utilizzano grandi contenitori, noti come biofermentatori, dove i microrganismi sono mantenuti in vita e fatti riprodurre, monitorando parametri fondamentali per una crescita ottimale, tra questi la fonte energetica (generalmente melassa di barbabietola), la temperatura, la quantità di ossigeno e altri fattori. Successivamente si recupera la biomassa ottenuta e si compatta ottenendo i comuni panetti disponibili in commercio. I panetti così ottenuti non sono altro che cellule vive di lievito che operano una fermentazione biologica rilasciando CO₂ responsabile della lievitazione; hanno pertanto una breve data di scadenza e vanno conservati in frigorifero a temperature tra 0 e 10 ⁰C.  Dal punto di vista nutrizionale il lievito di birra è composto da circa il 45-60% di proteine con una buona quantità di amminoacidi essenziali (leucina, valina, isoleucina, fenilalanina…), 30% di fibre, 9% di carboidrati, 4-7% di lipidi e 6-9% di minerali. Fibre e carboidrati sono principalmente rappresentati da polisaccaridi, in particolare β-glucani che hanno un’interessante azione stimolante sul sistema immunitario. Il lievito di birra è inoltre molto ricco di vitamine del gruppo B (B1, B2, B3, B5, B6 e folati) alle quali si aggiungono oligoelementi come selenio e cromo; per tali ragioni trova largo impiego anche nell’ambito dell’integrazione alimentare ed è dunque commercializzato sottoforma di capsule e compresse. 
Il lievito fresco può anche essere liofilizzato ed essere venduto come lievito secco. Al momento dell’uso va rinvigorito, stemperandolo in acqua tiepida, meglio se zuccherata. In quanto tale, si conserva più a lungo e a temperatura ambiente. Appartiene ai lieviti biologici anche il lievito naturale detto lievito madre o pasta acida. Questo si ottiene creando un impasto di farina e acqua che viene contaminato spontaneamente da microrganismi presenti nella farina, nell’acqua e nell’ambiente e viene periodicamente rinfrescato aggiungendo altra farina e acqua in modo da tenere in vita i microrganismi che ospita.  
 
Saccharomyces cerevisiae
La microflora autoctona che colonizza l’impasto non è costituita esclusivamente da Saccharomyces cerevisiae; a differenza del lievito di birra, nella pasta acida, infatti, convivono varie specie di lievito e batteri lattici del genere Lactobacillus. Per tale motivo si verifica una fermentazione alcolica operata dai lieviti e una fermentazione lattica operata dai batteri lattici che, metabolizzando gli zuccheri, producono prevalentemente acido lattico. La variazione del pH che avviene all’interno dell’impasto durante la lievitazione permette ai minerali custoditi nella farina di essere liberati divenendo così più facilmente assorbibili dall’organismo. Inoltre, i batteri lattici presenti nel lievito madre sono responsabili di reazione proteolitiche, ovvero di predigestione delle proteine, molto più intense di quelle operate dalla fermentazione alcolica; questo determina una maggiore digeribilità dei prodotti lievitati non causando fastidiosi gonfiori addominali, arricchisce gli alimenti di batteri lattici utili, conferisce un indice glicemico minore (anche utilizzando farine non integrali) oltre a permettere maggiori tempi di conservazione e donare una fragranza, un sapore e un aroma caratteristico. Tuttavia, la lievitazione ottenuta con pasta acida è un processo non facile da eseguire, lento, poco standardizzabile e che richiede tempo; viene perciò considerata un’arte legata alla panificazione casareccia.
Questo lievito è utilizzato oltre che nei prodotti da forno (pane, pizza, taralli, etc.) anche nella preparazione di dolci come il panettone, la colomba pasquale ed il pandoro, grazie alla sua capacità di lievitare impasti pesanti.

Nei lieviti chimici, al contrario, lo sviluppo di anidride carbonica non è dovuto al metabolismo di microrganismi bensì ad una reazione chimica, appunto, tra i suoi costituenti.   
Il lievito chimico più correttamente chiamato agente lievitante, è utilizzato nella preparazione di dolci; è in polvere e costituito da una base, un acido e un deumidificante per la conservazione. La base è generalmente rappresentata dal bicarbonato di sodio, indicato in etichetta con la sigla E500 conformemente al Regolamento CE1 129/2011 che modifica l'allegato II del regolamento CE 1333/2008 del Parlamento europeo e del Consiglio istituendo un elenco dell'Unione di additivi alimentari; l’acido può essere il difosfato disodico (E450) o il cremor tartaro (E336), noto anche come bitartrato di potassio, un sale di potassio dell'acido tartarico, di origine naturale in quanto estratto dall’uva. Durante la lievitazione avviene una reazione chimica acido-base e il bicarbonato di sodio rilascia anidride carbonica che crea delle bolle nell’impasto. Come il lievito al cremor tartaro, anche il comune lievito per dolci è reperibile in commercio in bustine, tuttavia, a differenza del primo che, come già detto, è di origine vegetale, contiene additivi che possono essere di origine animale.  
In generale, il lievito chimico, seppur più rapido da utilizzare, ha un’azione lievitante limitata, è insapore per cui si presta poco alla panificazione dove invece il sentore di alcol e acido lattico rappresentano requisiti essenziali. Questo tipo di lievito, inoltre, a differenza del lievito di birra e della pasta acida, non essendo protagonista di una vera e propria lievitazione, perché mancante di fermentazione microbica, non produce alcun effetto sull’intestino e sulla flora batterica.  
Il lievito deve essere dunque scelto in base al piatto che si deve realizzare; il lievito madre o pasta acida è dunque da preferire al lievito di birra nella panificazione e prodotti a lunga lievitazione mentre nella preparazione di dolci una valida alternativa, al comune lievito in polvere, è il lievito al cremor tartaro perché di origine naturale. In generale, anche nel caso dei lieviti, vale la regola del buon senso, sarebbe comunque preferibile evitare il consumo quotidiano di prodotti lievitati per mantenere un certo equilibrio a livello del microbiota intestinale.

Serena De Palma
Master in “Sicurezza, certificazione e comunicazione alimentare” ed.8

Marina Coviello
Master in “Alimentazione e nutrizione umana” ed.19

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